EXCALIBUR 7 - dic. 1998 / gen. 1999
in questo numero

Intervista al Prof. Pennisi

a cura di Paolo Truzzu
Breve presentazione del Prof. Pennisi.
Il Professor Pennisi ha lavorato per anni alla Banca Mondiale come responsabile dei programmi per lo sviluppo dell'educazione in Africa e in Asia.
Oggi insegna a Roma presso la Scuola di Pubblica Amministrazione.
Il 18 ottobre 1998 è stato ospite a Cagliari del Convegno "Le giovani generazioni davanti alle sfide del III Millennio", organizzato da Azione Giovani in occasione della "II Festa Tricolore del Secolo d'Italia".
In questa intervista fa il punto sulla finanziaria D'Alema, sull'Europa della moneta unica e sulle prospettive occupazionali-previdenziali in Italia (ammesso e non concesso che esistano...).
1. Il nuovo Presidente del Consiglio ha apportato numerose modifiche alla finanziaria presentata dall'Onorevole Prodi. Secondo lei la nuova finanziaria è migliore o peggiore della vecchia?
Le modifiche proposte dalla maggioranza alla finanziaria (ed al disegno di legge a essa collegato) non rappresentano un miglioramento né sotto il profilo degli equilibri finanziari, né - quel che più conta - sotto l'aspetto dello sviluppo della produzione, dei redditi e di quel grande "ascensore sociale" che si chiama lavoro.
L'impostazione generale del Governo Prodi è rimasta essenzialmente immutata: una manovra di bilancio articolata su piccoli aggiustamenti al margine e su risparmi illusori in materia di controllo dell'evasione e dell'elusione. Sarebbe stata necessaria, invece, una strategia basata sulla riduzione della spesa corrente e dei consumi pubblici improduttivi e sul rilancio della spesa in conto capitale ad alto rendimento economico e sociale, perché solo in questo modo si sarebbe dato fiato alla crescita economica.
Il Ministero D'Alema non ha neanche avuto il coraggio di "ripulire" la fiera dei particolarismi previsti nel "collegato": da sovvenzioni per la difesa della razza canina del lupo italico, a quelle per la stagione lirica del Teatro di Genova, ad aumenti automatici degli stipendi dei magistrati e degli alti dirigenti al supporto, alla non ben specificata mobilità ciclistica.
Anzi, ai vecchi particolarismi sta aggiungendo quelli richiesti dai nuovi alleati.
È difficile costruire una seria politica con la tattica delle mance a tutte le correnti dell'"endecapartito".


2. In gennaio dovrebbe iniziare la nuova fase della moneta unica. L'ingresso italiano pare scontato. Considerando l'alto livello di pressione fiscale, di spese assistenziali e pensionistiche che la nostra Nazione conosce rispetto agli altri paesi europei, riusciremo a rimanere stabilmente all'interno dell'euro?
L'unione monetaria non è un accordo di cambio, come il Sistema Monetario Europeo degli Anni Ottanta e Novanta o il "serpente" monetario degli Anni Settanta, ma un'intesa permanente che comporta la sostituzione delle valute nazionali con la moneta unica. Non è, quindi, una porta girevole ma un'entrata, da cui, una volta ammessi nell'euro e completata la fase di transizione da valute nazionali a moneta unica, non si esce più.
In effetti, la politica monetaria verrà, in gran misura, definita e gestita non dalle singole banche centrali ma dalla Banca Centrale Europea (B.C.E.) e dai suoi organi di governo.
A loro volta, le politiche di bilancio dovranno essere in linea con i parametri del "patto di crescita e stabilità"; il disavanzo annuo di bilancio italiano non potrà superare il 3% del P.I.L. e lo stock di debito pubblico dovrà essere ridotto dal 120% al 60% del P.I.L. entro un arco di tempo relativamente breve.
Il "patto" prevede pure multe che verranno applicate ai paesi che non restano in regola con questi impegni. Il rischio non è essere cacciati fuori dall'unione monetaria, ma essere costretti a perseguire politiche che comporteranno un aumento del divario tra il Centro-Nord, da un lato, e il Sud e le Isole, dall'altro. Cambiare strada, però, vuole dire attuare una strategia di liberalizzazione e di riassetto (e riduzione) della spesa pubblica (in particolare di quella previdenziale), che non vengono accettate dal blocco generazionale e sociale che sostiene l'attuale governo.


3. L'Italia spende ormai più per le baby-pensioni che per la scuola. Non le sembra che questo stato sociale, modellato su un sistema economico di inizio secolo, favorisca sostanziali ingiustizie? Dove si può e si deve intervenire?
Ho analizzato i perversi effetti intergenerazionali dello stato sociale, quale costruito da una certa sinistra, nel libro "La guerra dei trentenni - Italia e nuove generazioni", pubblicato circa un anno e mezzo fa dalla casa editrice IdeAzione (Via Sant'Andrea della Valle, 6 - Roma).
Da allora, la situazione è ulteriormente peggiorata non solo per la miriade di provvedimenti particolaristici assunti dal Governo Prodi a favore di classi di età già tutelate, ma anche e soprattutto in quanto - e pochi se ne sono accorti - i contributi previdenziali sono aumentati di sei punti percentuali, aggravando il costo del lavoro e quindi l'accesso all'impiego a chi un'occupazione dipendente non ce l'ha.
L'ultima proposta allo studio della sinistra renderebbe ancora più difficile la situazione dei giovani, che adesso, quando lavorano, operano quasi esclusivamente nel settore autonomo: i contributi previdenziali per gli autonomi verrebbero portati al 25-27% delle remunerazioni, colpendo anche questo comparto.
Occorre rivedere al più presto la spesa sociale, stabilendo, particolarmente per la previdenza, un sistema "a tre gambe" che tuteli nel lungo periodo non solo i giovani, ma anche gli attuali pensionati. Pure su di loro pesa, infatti, la minaccia di un sistema non più sostenibile.
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