EXCALIBUR 32 - dicembre 2001
in questo numero

Quale futuro per il pianeta?

Uno "sviluppo sostenibile" contro le "catastrofi geologiche"

di Beppe Caredda
Con la stagione invernale tornano alla mente i disastri causati dalle ultime alluvioni, mentre si discute paradossalmente sugli effetti della siccità in corso. Alluvioni e siccità sembrano essere i termini che più caratterizzano sotto il profilo ambientale e socio-economico questi ultimi vent'anni.
Indubbiamente è in atto un lento ma profondo cambiamento di vasti scenari territoriali a cui l'azione dell'uomo e certa tecnologia non sanno far fronte, anche perché ne sono una delle cause prime. Di fronte a questi fenomeni che mettono in discussione l'intero modello di sviluppo della nostra società, ci si deve chiedere se il modo di operare e comportarci di fronte ai problemi posti dalla natura, e se l'inserimento e la stessa coesistenza antropica con l'ambiente, siano stati previdenti, corretti e tempestivi. La risposta, visti i fatti, non è certo positiva ed è avvilente la rilettura di tanti documenti, richiami, richieste di leggi, inviti a non trascurare l'involvere della situazione.
I temi sono vastissimi e presentano un duplice aspetto. Essi sono, da una parte, fortemente caratterizzati dalle dimensioni del problema: per l'estensione delle aree interessate, per la complessità degli interventi richiesti, per l'entità delle risorse economiche necessarie e per la gravità dei fabbisogni, ad esempio idrici o energetici, necessari; dall'altra riguardano sostanzialmente la capacità di una società di organizzarsi e di dotarsi di un sistema normativo che renda possibile il raggiungimento degli obiettivi posti, in un'ottica che non può più essere quella tradizionale.
Non possiamo consentirci all'infinito di produrre quantitativi sempre crescenti di rifiuti, di sottrarre al nostro territorio quantità illimitate di risorse naturali irriproducibili; non possiamo utilizzare il territorio a nostro piacimento, incendiandone la vegetazione, cementificando i corsi d'acqua e i litorali marini, urbanizzando gli angoli più remoti, intersecandolo in tutte le direzioni con strade, gallerie, ponti e viadotti che tagliano, squarciano, interrompono unità morfologiche e strutturali, drenano falde idriche, pregiudicano equilibri idraulici e inducono fenomeni di instabilità a catena, impoveriscono il suolo agrario, la flora e la fauna. Non possiamo assumerci la responsabilità di questi scempi nella convinzione che sempre più sofisticate tecnologie potranno garantirci un futuro nel quale il problema della qualità della vita potrà godere di una sua priorità.
Una cosa va detta con chiarezza: i meccanismi e i tempi che regolano lo sviluppo della nostra società non sono più in sincronia con quelli scanditi dai fenomeni naturali, e le catastrofi cosiddette "naturali" non sono invece tali, mentre l'accezione corretta è "fenomeno naturale". Una frana, un'alluvione, una mareggiata (vedi il Poetto) sono semplicemente fenomeni naturali, giammai catastrofi, e rappresentano la naturale, irresistibile e immodificabile evoluzione del pianeta Terra. Si trasformano, viceversa, in catastrofi, cioè in eventi terribili e drammatici (quanti anche in Sardegna?) con coinvolgimento di vite umane per il cattivo uso del territorio, per la sua irrazionale destinazione d'uso, per la sua eccessiva antropizzazione, per la assoluta ignoranza o disattenzione dei processi morfo-evolutivi.
Il modello esasperato di sviluppo economico costantemente proteso all'espansione dei consumi, assieme all'urbanizzazione dissennata e a tutti i costi, rappresentano la fonte delle attuali preoccupazioni e dei ricorrenti disastri. Forse ha ragione chi, non senza fondate argomentazioni, definì l'uomo tecnologico "catastrofe geologica", ponendolo al pari degli altri grandiosi fenomeni naturali. Come non credere che la sua attività è quantitativamente comparabile con la dinamica esogena (erosione, demolizione di catene montuose, sedimentazione...) e in parte quella endogena (vulcanesimo, orogenesi...), quando i calcoli indicano che i materiali rocciosi comunque oggi utilizzati o rimossi dall'uomo sono dell'ordine dei dieci miliardi di metri cubi per anno? Questa massa di materiali naturali equivale alla nuova crosta che ogni anno si forma lungo le dorsali oceaniche, ovvero equivale ai materiali che sono messi in gioco nei processi di sollevamento orogenetico ed erosione che annualmente agiscono sull'intero pianeta.
È evidente che diventa di grande rilevanza l'aumento progressivo della popolazione, a prescindere dalla densità dei paesi industrializzati, giacché altrove controbilancia l'azione concentrata dei paesi tecnologicamente più avanzati: si pensi alla deforestazione o ai rifiuti solidi urbani e industriali.
Analoghe prospettive si aprono nel futuro prossimo se andiamo a valutare ad esempio i volumi di fluidi (principalmente acqua) che l'uomo usa o controlla, per non parlare delle possibilità di controllo (militare?) del clima, ovvero per l'impatto climatico dei principali cicli biogenetici che l'uomo ha modificato talvolta in modo sostanziale. L'attività antropica sta generando flussi di carbonio, azoto, fosforo e zolfo che sono quantitativamente comparabili con altri flussi naturali; ciò non può non alterare gli equilibri finora esistenti. I numeri e i dati sono facilmente disponibili per quasi tutte le attività antropiche globalmente intese. Possiamo pertanto credere che l'uomo è davvero capace di intervenire in tempi brevi negli equilibri globali del pianeta modificandoli oltre i limiti di autoregolamentazione dei sistemi naturali e con ciò quindi rientrando nella definizione di "catastrofe geologica".
Pur nella loro rilevanza, i dati di cui sopra costituiscono tuttavia la cornice planetaria di una serie di quadri regionali che sono sotto gli occhi di tutti: alluvioni, frane, siccità, desertificazione, mareggiate, erosioni accelerate, appunto, tanto per restare a casa nostra.
Consapevoli di quanto avviene, oggi ci si esprime sempre più frequentemente in termini di "sviluppo sostenibile", che in sostanza «è un processo di cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, l'andamento degli investimenti, l'orientazione dello sviluppo tecnologico e i mutamenti istituzionali sono in reciproca armonia e incrementano il potenziale attuale e futuro di soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni umane» (rapporto Brundland WNCED 1987), concetto ulteriormente specificato come «miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di supporto dai quali essa dipende».
Hermann Daly riconduce la nozione di sviluppo sostenibile a sole tre condizioni generali riguardanti l'utilizzazione delle risorse naturali da parte dell'uomo: 1) il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; 2) l'immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell'ambiente non deve superare la capacità di carico dell'ambiente stesso; 3) lo stock di risorse non rinnovabili deve rimanere costante nel tempo. Queste condizioni, e in particolare la terza, sono a loro volta ulteriormente precisate in ragione di due differenti approcci al concetto di "sostenibilità": a) la "sostenibilità forte" presuppone l'effettivo mantenimento dello stock di risorse non rinnovabili; b) la "sostenibilità debole" ammette la sostituibilità di risorse non rinnovabili con capitale umano, nonché la possibilità di utilizzare risorse non rinnovabili a fronte di un crescente ricorso a risorse alternative rinnovabili.
Questi concetti si possono applicare alla Sardegna, vista la singolarità geografica e le peculiarità ambientali?
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