EXCALIBUR 34 - febbraio/marzo 2002
in questo numero

La Palestina e la "terra promessa"

Israele ha definitivamente abbandonato le buone intenzioni dei tempi di Rabin. A farne le spese è il vecchio Arafat...

di Stefania Burini
Ariel Sharon è proprio un bravo ragazzo ebreo, rispettoso delle sacre scritture e ligio ai suoi precetti, primo fra tutti quello biblico «occhio per occhio dente per dente»...
Infatti, a sei mesi dall'inizio della seconda intifada, per il "bulldozer" (così viene soprannominato il leader israeliano per le sue eccelse doti diplomatiche e filantropiche) è questo il principio ispiratore delle sue relazioni con il popolo palestinese. Ispirate a un puro sentimento di vendetta appaiono infatti numerose operazioni dell'esercito israeliano. Ricordate l'abbattimento arbitrario di 80 abitazioni nei territori occupati, la distruzione dell'aeroporto internazionale di Gaza, l'abbattimento di pericolosissimi pescherecci nel porto di Gaza e il bombardamento del carcere dove erano detenuti militanti di Hammas e Jihad?
Mentre l'intero Occidente si interroga sulla credibilità di Arafat, in Israele si è innescata una pericolosa spirale di vendette e assassinii arbitrari, che sembrano rispondere all'antico precetto biblico. Abbandonata ogni velleità diplomatica, archiviata l'era dei buoni propositi alla Peres, la parola d'ordine è una sola: rappresaglia. Rappresaglia contro attentato.
E pensare che tutto è cominciato a settembre con una provocatoria passeggiata del nostro Sharon sulla spianata delle moschee (luogo sacro ai musulmani). Sì, è bastata questa banale e certamente premeditata provocazione a rinfocolare odi e rivalità che sino a quel momento sembravano sopiti, e adesso siamo punto a capo, si fa la conta dei morti.
Resta da chiedersi quale sia il reale obiettivo di Sharon. Forse provocare i Palestinesi e arrivare a una riapertura delle ostilità che trascini lo scontro sul piano militare classico, certo che gli esiti saranno scontati. A quel punto a guerra conclusa il buon Sharon sa bene che sederà al tavolo delle trattative da vincitore e detterà legge, ricacciando con molta probabilità il popolo palestinese totalmente nei campi profughi in territorio arabo.
Ma forse qualcuno di voi ha mai creduto che il vero obiettivo del leader del Likud fosse la pace? Per alcuni fatti strettamente oggettivi (ricordate ciò che accadde in Libano nel '82 nei campi profughi di Sabra e Shatilla? All'epoca Sharon era comandante delle forze in campo), non può essere certamente considerato erede spirituale di Rabin, ed è proprio questo il motivo della sua elezione. L'uomo duro della destra israeliana, il militare delle stragi è la chiara espressione di una radicata frenesia bellicista che infetta buona parte del popolo israeliano. A partire infatti dal rifiuto di Camp David ad Haifa, anche l'Israele più moderato ha sviluppato un fortissimo "Arafat-scetticismo": archiviata l'era delle colombe è arrivata l'ora dei falchi. A farne le spese sono le stesse sparute schiere di moderati rappresentate da Peres, voce sempre più isolata nel coro del governo di unità nazionale.
E mentre tutti ormai si accodano al corteo funebre del processo di pace, Sharon rifiuta i negoziati perché cosciente che sedersi al tavolo delle trattative con Arafat significherebbe innanzitutto reinserirlo in un piano legalitario e concedergli nuova legittimazione, sdoganandolo dal ghetto politico in cui l'ha confinato. Non pochi problemi sarebbero creati anche al felice connubio creato dallo stesso Sharon con i gruppi ortodossi dello Shas e con i coloni a cui deve la vittoria del 2001. Per adesso perciò la strategia del leader del Likud ha un unico intento: prima della guerra totale bisogna estirpare alla radice l'Autorità Nazionale Palestinese ed eliminare una volta per tutte dallo scenario politico Arafat, consapevole del fatto che a egli non può succedere nessuno che abbia, a livello internazionale, la stessa credibilità. Così vanno interpretate le ultime mosse: i bombardamenti sulle sedi della autorità, la distruzione dello stesso quartier generale di Arafat, il suo isolamento fisico (Arafat è infatti confinato a Ramallah) che diventa sempre più politico, il bombardamento alla "Voce della Palestina" considerata uno strumento di propaganda antiisraeliana e costruito grazie ai finanziamenti dell'O.N.U. e degli Stati Uniti.
E tutto intorno cosa accade? Gli Stati Uniti, dopo una breve parentesi di opportunistico raffreddamento nei confronti di Israele, rimettono in cantina la soluzione della questione palestinese: ritirato sine die Zinni e dopo la falsa bacchettata, riporgono la mano all'amico di sempre. Superata infatti la fase più acuta di tensione internazionale prodotta dalla guerra in Afghanistan, il conflitto mediorientale passa in secondo piano, i Palestinesi non servono più alla coalizione internazionale antiterrorismo. A essi non resta che l'attesa messianica di un altro Bin Laden che rimetta al centro del dibattito internazionale la loro tragedia.
E intanto la comunità internazionale si è come assopita in un letargico menefreghismo, mentre il governo israeliano dà prova di un intollerabile dispregio delle tanto acclamate norme di diritto internazionale. L'assopimento dell'O.N.U. si interrompe per incanto ogni tanto per inveire energicamente contro Arafat e i suoi uomini, rei di non controllare abbastanza bene la situazione. Per una strana inversione delle parti, Arafat, storicamente icona sacra, simbolo della volontà di redenzione di un popolo, diventa il carnefice, il Bin Laden, e Sharon la vittima. Ed è proprio il povero Arafat l'anello debole, mentre infatti il suo atavico nemico ha per adesso partita vinta (anche grazie al silenzio complice europeo). Il povero Abu Amar, dopo quasi mezzo secolo di lotta, esìli e clandestinità, giunge al suo tramonto politico senza avere visto la risoluzione della causa di cui è stato instancabile peroratore.
La comunità internazionale chiede il conto salato per non avere saputo dare l'addio alla politica del "doppio binario", legalitaria e diplomatica da un lato e armata e terroristica dall'altro. Dal suo confino di Ramallah non può perciò fare altro che assistere impotente all'inevitabile sgretolamento del fronte interno in diverse fazioni. Niente più radio per esprimere dissenso, quasi nessun edificio pubblico intero, non una leadership unitaria... anche con un poliziotto ogni dieci abitanti la situazione è ormai fuori dal suo controllo.
Si apre l'era del martirio e Arafat, debole e isolato sullo scenario internazionale e contestato dal suo stesso popolo, è un topo in trappola. Di fronte a tutto ciò la comunità internazionale continua a non capire che non è più tempo per le domande di tregua in carta bollata o per i simposi di geopolitica. Nei territori occupati rabbia e miseria si fondono pericolosamente in una miscela esplosiva. Per chi vive nell'inferno della quotidianità è facile farsi ammaliare da promesse di paradiso e talvolta da cose molto più semplici, come i sussidi che vengono offerti dai gruppi terroristici alle famiglie dei martiri.
L'indifferenza generale e la cecità colpevole e consapevole dell'intero occidente si abbattono come una folgore su una popolazione di tre milioni di abitanti congestionati in terre aride e degradate, con un livello di disoccupazione che in alcune zone sfiora il 70%. E in mezzo a questa incubatrice naturale di disperazione, prolifera indisturbato il germe del terrorismo.
Sino a quando l'O.N.U. si potrà fingere cieca e sorda di fronte a questo spettacolo di dolore e sopraffazione? Non bastano le condanne per ripulirsi la coscienza: è ora di offrire al popolo palestinese un'alternativa concreta al terrorismo, o avremo ancora intere generazioni di uomini pronti al martirio perché cresciute respirando odio all'ombra di quegli insediamenti ebraici prepotenti come un insulto sulle loro catapecchie.
La comunità internazionale o l'O.N.U., quelle stesse che oggi puntano il dito su Arafat e sui martiri, devono innanzitutto imporre a Israele il rispetto di quanto stabilito nel '93 a Oslo, e pretendere il ritiro dai territori occupati. È questo il primo passo per combattere il terrorismo palestinese. Non saranno infatti le incursioni sulle case palestinesi o i sequestri di navi cariche di armi a fermare il terrore; solo il ristabilimento di una condizione di giustizia e di equità disarmeranno i martiri e priveranno l'integralismo islamico dei suoi più potenti strumenti propagandistici.
Il Medioriente ci chiede un impegno serio e duraturo per non dire mai più "Shahid". Mai più corpi a brandelli sulla Terra Santa... non è troppo tardi perché sulla terra biblica torni a regnare la giustizia. Solo allora la fabbrica della morte interromperà la sua triste produzione.
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