EXCALIBUR 37 - luglio/agosto 2002
in questo numero

I falsi miti della storia sarda

È giusto preservare le tradizioni e la lingua sarda, ma tenendo sempre presente l'italianità dell'isola

di Emilio Belli
È ormai tempo di valutare con maggiore attenzione e obiettività la cultura sarda nei suoi vari aspetti, dandoci al riguardo delle linee guida ma senza cedere alle suggestioni di una "sardità" male intesa.
Un primo spunto di riflessione viene offerto dalla discutibile interpretazione della nostra storia fornita dalla sinistra. Si parla infatti, e con molta enfasi, soprattutto durante le celebrazioni dell'ormai ufficializzato 28 aprile 1794, di difesa della lingua sarda in quanto fondamento non prescindibile di una identità conculcata da molteplici dominazioni, di una storia regionale colpevolmente trascurata dalle istituzioni e dalla scuola, di una Sardegna più autonoma e, per le posizioni più radicali, anche separata dalla Nazione italiana.
Da queste rivendicazioni, fra l'altro non nuove, che sono state rafforzate nell'ultimo decennio dalla prospettiva di una Unione Europea a forte connotazione etnica, traspare il disegno ambizioso di dare alla Sardegna una dignità statuale, cercando di rinvigorire il senso dell'identità regionale mediante l'esaltazione di quelle fasi storiche in cui i Sardi ebbero un ruolo da protagonisti.
Alla mitizzazione della civiltà nuragica e dell'epoca giudicale, peraltro già fortemente radicate nell'immaginario collettivo, si sono aggiunti i moti antipiemontesi e antifeudali del tardo Settecento, in quanto considerati l'espressione della lotta degli oppressi contro i dominatori. Ed è sempre nella medesima ottica che si colloca anche il tentativo di elevare al rango di inno ufficiale sardo il ben noto "Procurare e moderare". Ma l'immagine di una Sardegna privata della sua libertà fin dall'epoca punica e vessata per secoli è in tutta evidenza un'operazione strumentale, giacché, come dimostra efficacemente la linguistica, il bagaglio culturale dei Sardi è in ampia misura il lascito delle varie genti mediterranee che si sono avvicendate nel tempo e hanno dato luogo, attraverso un lungo e complesso processo di integrazione, a quell'humus che costituisce l'essenza della sardità.
Di certo, se nella scuola la storia della Sardegna fosse insegnata seriamente, tali interpretazioni di comodo verrebbero a essere ridimensionate, e ciò servirebbe a fugare non pochi equivoci anche sulla questione della lingua. Venendo a essa, si ritiene da più parti che la legge sul bilinguismo, approvata alcuni anni or sono dal Parlamento, servirà a sanare un'antica ingiustizia, ponendo la lingua sarda sullo stesso piano di quella italiana. È possibile che questo progetto giunga a compimento, ma è facile prevedere che si renderà necessario un atto d'imperio del Consiglio regionale per superare gli inevitabili contrasti sulla variante da adottare. È tuttavia augurabile, qualora non venisse scelto né il "logudorese" né il "campidanese", che non si voglia dar vita a un artificio linguistico di mera valenza burocratica. Una soluzione del genere non favorirebbe la tutela delle parlate locali e neppure sminuirebbe l'importanza dell'italiano, divenuto ormai sia il fattore unificante di tutta la popolazione dell'Isola, sia lo strumento che ha consentito ai Sardi di approdare alle discipline del sapere, di conoscere la propria storia e il valore delle proprie tradizioni, rendendoli nel contempo partecipi delle vicende della restante parte degli Italiani con i quali da oltre un secolo condividono il destino.
Pensare di salvaguardare "sa limba" ha un senso (per quanto il tessuto economico e sociale che ne costituiva la linfa vitale sia ormai irrimediabilmente stravolto); sarebbe invece vano utilizzarla per arroccarsi nella propria specificità. I Sardi non diventeranno una Nazione alimentando un ambiguo spirito di rivincita e dando inizio a una sorta di "decolonizzazione". Si otterrebbe soltanto il risultato di una ulteriore perdita di identità, poiché la cultura italiana è ormai a pieno titolo parte integrante della cultura sarda. Siamo di fatto Italiani, sia negli usi che nelle istituzioni, ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Se lo facessimo, riusciremmo a liberarci di quel senso di inferiorità che ci induce a una continua lamentazione e rappresenta il nostro peggior nemico. Invochiamo continuamente l'autonomia, attribuendole un significato quasi salvifico, senza però rammentare le nostre responsabilità nella cattiva gestione delle ingenti risorse finanziarie investite nell'Isola dal secondo dopoguerra a oggi.
Dobbiamo cambiare mentalità per diventare, finalmente, gli abitanti di una terra "normale" e libera dall'assistenzialismo, valorizzandone in modo equilibrato le potenzialità umane e ambientali e restituendo dignità all'agire politico.
tutti i numeri di EXCALIBUR
VICO SAN LUCIFERO