EXCALIBUR 42 - maggio 2003
in questo numero

I Sardi nella Repubblica Sociale Italiana

Tanti nomi illustri: Porrino, Pattarozzi, Sulis, Ruinas, Biasi, Oppo...

della Redazione
A sinistra: la locandina del convegno
Sotto: il tavolo dei relatori con Renato Farina, Pino Rauti, Fabio Meloni, Giuseppe Parlato ed Angelo Abis e una panoramica del folto pubblico presente
«Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato...». Con queste parole tratte dal romanzo "La casa in collina" di Cesare Pavese, lette dall'attore Tino Petilli, è iniziato il convegno "Sardi nella Repubblica Sociale Italiana", primo atto del viaggio che "La Fiaccola" ha deciso di intraprendere all'interno delle pagine di storia dimenticate. Proprio lo scrittore, vicino agli ambienti antifascisti di "Giustizia e Libertà" e nel dopoguerra iscritto al Partito Comunista Italiano, ha rappresentato l'adeguata icona dell'intento spregiudicato dell'iniziativa, giunta a pochi giorni dalle consuete polemiche sul 25 aprile, festa sempre più solitaria e sempre più "partigianamente" di sinistra. A parlare di R.S.I., Renato Farina, vicedirettore del quotidiano "Libero", Giuseppe Parlato, professore di storia contemporanea alla Libera Università San Pio V di Roma e storico della "nidiata" di Renzo De Felice, Pino Rauti, politico e scrittore, e Angelo Abis, studioso di storia sarda.
«Sarà un modesto contributo», ha introdotto Fabio Meloni, «per sollevare il macigno che la storia scritta a uso politico dai vincitori ha deposto sopra alcune pagine gloriose, che hanno caratterizzato anche la storia dei vinti. Rileggerle, quindi, ripercorrendo la memoria e rendendo giustizia a coloro che hanno combattuto nella fila della R.S.I.. Un'iniziativa che nasce dalla riscoperta dei nomi e della storia di tanti Sardi che hanno aderito alla Repubblica Sociale. Tra i tanti, anche alcuni protagonisti della vita sociale e culturale isolana di quegli anni. Una pagina importante della storia della Sardegna, totalmente dimenticata, sepolta sotto fiumi di retorica resistenzialista e antifascista, peraltro fin troppo ben foraggiata dalle istituzioni, col silenzio colpevole e complice della storiografia isolana».
Una riscoperta frutto di un'attenta e dettagliata ricerca compiuta da Angelo Abis: «Quello dei Sardi nella R.S.I. è un discorso completamente nuovo», ha sottolineato, «e non ha mai trovato adeguato spazio, nonostante ne siano stati protagonisti alcuni importanti esponenti della cultura sarda del primo Novecento. Altrimenti si sarebbe dovuto dire che il più grande pittore sardo, Giuseppe Biasi, il più grande musicista sardo del Novecento, Ennio Porrino, e tanti altri avevano aderito alla R.S.I.. Tra i Sardi nella R.S.I., tanti militari (circa 12 mila), tra i quali alcuni nomi di spicco come il generale Gioacchino Solinas, comandante della divisione "Granatieri di Sardegna", il generale Raffaele Delogu, il colonnello Giovanni Cabras e il colonnello Giovannino Lonzu. Addirittura una unità venne formata completamente da Sardi, il "Battaglione Volontari di Sardegna Giovanni Maria Angioy", creato dal sacerdote Padre Luciano Usai e inizialmente comandato dal colonnello Bartolomeo Fronteddu, eroe della prima guerra mondiale. Ai vertici della R.S.I., come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ci fu Francesco Maria Barracu, catturato e fucilato con Mussolini a Dongo, anche lui appeso a Piazzale Loreto».
Anche una gran parte del mondo culturale e intellettuale sardo si schierò con la R.S.I.: «Tra questi», ricorda Abis, «Cipriano Efisio Oppo, pittore e Accademico d'Italia, Paolo Orano, intellettuale e deputato del Partito Sardo d'Azione, passato poi al fascismo, il poeta futurista Gaetano Pattarozzi, gli intellettuali Edgardo Sulis e Stanis Ruinas, il regista Mario Baffico e il giornalista Ugo Manunta».
Dopo l'8 settembre, i volontari nella R.S.I. furono oltre 200 mila e quasi tutti giovanissimi, tra i 16 e i 18 anni. Tanti ragazzi che scrissero pagine di storia da sempre nascoste e accantonate. Uno di quei ragazzi fu Pino Rauti (classe '26): «Furono anche motivazioni non strettamente politiche a spingerci a scegliere. C'era una forte volontà di dimostrare che non tutti gli Italiani saltavano sul carro del vincitore. Infatti, dopo l'8 settembre, i Tedeschi ci guardavano con disprezzo. Per loro eravamo quelli che ancora una volta avevano tradito. Fu la molla decisiva per fare la nostra scelta con entusiasmo giovanile. Di quella storia ci sono ancora molte, troppe, pagine ignorate e il fatto che sia diventata la storia dei perdenti non autorizza nessuno a trascurarle».
In un suo libro, il ministro della Giustizia della R.S.I., Piero Pisenti, parlò di "repubblica necessaria", e anche lo storico Giuseppe Parlato concorda con questa definizione, fugando ogni dubbio sulla legittimità della R.S.I.: «La Repubblica Sociale era uno stato con una sua struttura. Renzo De Felice - che ho avuto l'onore di avere come maestro - aveva ragione quando diceva che Mussolini era riluttante dopo il 25 luglio a riprendere in mano la situazione e che "ritornò al potere per mettersi al servizio della patria... spinto da una motivazione patriottica, un vero e proprio sacrificio sull'altare della difesa della Patria", arrivando anche lui alla conclusione che la R.S.I. fosse una repubblica necessaria. Ci arrivò grazie alle memorie di Vincenzo Costa, federale fascista di Milano negli ultimi mesi della R.S.I., al quale Mussolini disse "lo sono il bue nazionale, tirerò l'aratro fino alla fine e poi pagherò per tutti". Consapevole che la R.S.I. fosse necessaria per tutelare l'Italia dalla vendetta tedesca. Inoltre con la Repubblica Sociale si realizzò un quadro di continuità dello Stato. Aveva una struttura amministrativa funzionante: le poste, i treni, il cinema, i teatri, si riscuotevano le tasse, si attuò la difesa della lira contro il marco di occupazione tedesca, si ebbe una discreta situazione agroalimentare, si tutelarono gli impianti industriali. Una situazione più che accettabile se si considera il conflitto e soprattutto la presenza della guerra civile. Lo Stato Repubblicano chiuse addirittura in attivo, ben diversamente dal Regno del Sud, dove la presenza delle "am lire" aveva fatto crollare il valore della nostra moneta. In meno di due anni ci fu anche un'intensa attività legislativa, si realizzò la costruzione e la difesa della pubblica amministrazione. Non fu certamente un buco nero della storia d'Italia. Una tappa importante che si può considerare ideologicamente come si vuole, ma di cui si deve tener conto, trattandola con rispetto».
Se per il Capo dello Stato Ciampi il revisionismo sul tema della Resistenza è improponibile, Renato Farina ha invece denunciato come «la tragedia dell'Italia sia il non sapere, la non conoscenza della storia. Altro che parlare di revisionismo. Si vorrebbe far accettare un dogma, quello di non sapere. E prima ancora un altro dogma, quello di sapere chi erano i buoni e chi i cattivi, rendendo impossibile aver a che fare con uomini tutti uguali davanti alla storia. Senza il pregiudizio di una inferiorità morale che viene fatta gravare su una parte. Anche la scuola, come espressione della cultura dominante, ha impedito di conoscere la realtà storica che ci ha preceduto. Il grande dogma è intoccabile perché la convivenza pacifica deve reggere sul fatto che la repubblica sia nata dalla resistenza. Se vuoi studiare la storia e metti in dubbio il dogma sei un pericolo».
Durante il convegno, Tino Petilli ha letto due poesie di Gaetano Pattarozzi e di Ezra Pound e la lettera di Franco Aschieri, uno dei condannati a morte della R.S.I., mentre il coro polifonico "Nuovo Incontro" ha eseguito una inedita composizione, datata 1944, del maestro cagliaritano Ennio Porrino, che sarebbe dovuta diventare l'inno della Repubblica Sociale Italiana.
«Abbiamo percorso un piccolo tratto», ha concluso Meloni, «del lungo cammino per ristabilire qualche verità sui tragici avvenimenti di quegli anni, consapevoli che la politica ancora condizioni il giudizio storico sui seicento giorni che videro protagonista una generazione che non si arrese e che dopo l'armistizio dell'8 settembre decise di innalzare la bandiera dell'onore, pur consapevole di andare incontro a una sconfitta certa e a una probabile morte».
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