EXCALIBUR 47 - novembre 2007
in questo numero

La guerra civile in Palestina

Analisi storica di un conflitto fra i più sanguinosi del globo

di Angelo Marongiu
Sopra: Haj Amin al Husseini e Raghib al Nashashibi
Sotto: il Presidente palestinese Abu Mazen
Quando, il 25 gennaio 2006 alle elezioni politiche palestinesi, Hamas - che si presentava per la prima volta - ottenne la maggioranza del Consiglio Legislativo palestinese, 76 seggi su 132, la sorpresa nel mondo politico internazionale fu enorme. Il processo di normalizzazione tra Palestinesi e Israeliani che faticosamente era stata avviato - pur con molte contraddizioni - dopo la morte di Arafat, subì un'inaspettata battuta d'arresto, con le conseguenti dimissioni del premier Abu Ala (Ahmad Quray) e di tutti i ministri del suo governo.
Chi era Hamas in realtà? Hamas, che significa "Movimento di Resistenza Islamico" (acronimo H.M.S.: Harakat al Mukawarma al Islamiyya) è un'organizzazione religiosa islamica palestinese a carattere paramilitare e politico. Fu fondata nel 1987 da Ahmad Yasin e Muhammad Taha, come appendice dell'organizzazione dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi costituivano una delle più importanti organizzazioni islamiche che teorizzavano un approccio di tipo politico all'Islam; fu fondata nel 1928 da al Hasan al Banna in Egitto, dopo il collasso dell'Impero ottomano.
Hamas, come i Fratelli Musulmani, ha alla base il rifiuto alla tendenza alla secolarizzazione del mondo islamico in favore di un'osservanza più rigida dei precetti del Corano; pone in essere attività che battono i sentieri politici tradizionali, nonché l'area della cosiddetta assistenza sociale (educazione, sanità, ecc.): una strategia tipica delle organizzazioni legate ai Fratelli Musulmani, che ha permesso loro una graduale penetrazione in tutti gli strati della popolazione.
L'emergere di un nuovo movimento islamista nasce dalla decisione dei Fratelli Musulmani di abbandonare il loro tradizionale atteggiamento quietista, passando quindi al jihad attivo, quello che nella filosofia islamica è chiamato "piccolo jihad".
Alla base della sua ideologia Hamas considera la Palestina come una terra storicamente islamica e afferma che intraprendere il jihad per cancellare la presenza ebraica da quelle terre è un obbligo religioso per tutti i musulmani palestinesi. Posizione questa che ha subito posto Hamas in netto contrasto con l'O.L.P., che invece, dal 1987, ha riconosciuto, almeno formalmente, il diritto di Israele a esistere. Il conflitto arabo-israeliano è, per Hamas, una lotta religiosa tra Islam ed Ebraismo, e può essere risolta solo con la distruzione dello Stato d'Israele. Hamas ritiene quindi che possano essere usati sia i mezzi politici che il terrorismo per realizzare l'obiettivo di uno Stato palestinese islamico al posto di Israele.
Consideriamo un momento le richieste poste dal mondo occidentale nei confronti di Hamas per la continuazione del dialogo nei confronti del nuovo governo palestinese nato dopo le elezioni del gennaio 2006, e cioè la continuazione delle trattative con Israele e il riconoscimento degli impegni precedentemente assunti dall'Autorità nazionale palestinese. Hamas ha posto immediatamente un rifiuto. E allora vengono immediatamente alla mente i famigerati "tre no" che i capi di Stato arabi pronunciarono a Karthoum: no al riconoscimento di Israele, no alla pace con Israele, no a qualunque trattativa con Israele. Era il settembre del 1967, subito dopo la "guerra dei sei giorni": quarant'anni sono passati invano, a testimonianza di una cecità politica che a tratti sembra pervadere tutta l'area mediorientale.
Questa assoluta mancanza di visione politica, che farebbe inorridire i cultori dei princìpi politici e strategici di Machiavelli, è la stessa che ispira il comportamento di Hamas. Solo il rifiuto della politica e il culto della morte e dell'annientamento può aver spinto Hamas a sparare su al Fatah a Gaza e arrivare a quella sorta di pulizia etnica tra Palestinesi, come di fatto è avvenuto. Nulla impediva a Ismail Haniye, primo ministro del governo palestinese dopo la vittoria elettorale del 2006, di emarginare nei fatti Abu Mazen (Mahmud Abbas) e di lasciare che fosse questi - investito di un'autorità e un'autonomia puramente di facciata, ma capace, solo per il fatto di avere la carica di Presidente dell'Autonomia palestinese, di impinguare le casse di centinaia di milioni di dollari di aiuti - a portare avanti trattative puramente formali con Israele, lasciando che consumasse il residuo del prestigio di cui ancora godeva.
Invece Hamas ha scelto di percorrere la strada del jihad, il lancio di razzi su Sderot, il rapimento di soldati nemici, il rifiuto continuo di Israele, fino al massacro tra Palestinesi e lo svuotamento di Gaza dagli uomini di al Fatah. A questo anelito di violenza è stata sacrificata ogni possibilità di edificazione di un qualunque embrione di stato.
Ma quella tra Hamas e al Fatah non è la prima guerra civile tra Palestinesi, a riprova che quanto avviene è la ripetizione quasi vichiana di qualcosa che è gia avvenuta. La prima guerra civile fu ben più feroce e sanguinosa e si svolse durante gli anni del mandato britannico sulla Palestina, tra il 1936 e il 1939, in un contesto praticamente uguale a quello attuale. Prese le mosse dalla proposta di partizione di William Robert Peel, sottosegretario inglese incaricato di presiedere la Commissione per la Palestina: il suo piano di partizione prevedeva la costituzione di un minuscolo stato ebraico su circa 5 mila chilometri quadrati e di uno stato arabo sul restante territorio. Questi 5 mila chilometri quadrati rappresentavano allora meno del 4% dell'intera Palestina storica posta sotto l'iniziale mandato britannico da parte della Società delle Nazioni. Anche allora fu proposta la formula "due popoli, due stati"; anche allora in campo palestinese si fronteggiarono due fazioni: il Partito nazionale palestinese, fondamentalista, guidato dal Gran Muftì Haj Amin al Husseini e la fazione moderata nazionalista, saldamente ancorata alla Giordania, guidata dalla famiglia Nashashibi. Il Partito della difesa nazionale, fondato nel 1934 da Raghib al Nashashibi, si allineò alla roboante condanna verbale del movimento sionista, anche se poi in realtà cercò di trovare un compromesso con i sionisti, cercando in questo modo di sottrarre consensi alle iniziative estremiste del clan degli Husseini. Dal 2004 a oggi, circa un migliaio di Palestinesi sono stati uccisi da altri Palestinesi; tra il 1936 e il 1939 furono oltre 4.500, una mattanza che portò al rifiuto del piano di partizione Peel. Fu il primo di innumerevoli rifiuti a qualunque compromesso, che hanno portato da una parte alla nascita di uno Stato ebraico che il prossimo anno festeggerà i suoi sessant'anni di vita e dall'altra a un ectoplasma informe nel quale non esiste autorità, in cui mancano strutture, infrastrutture, prospettive, speranze; in cui il tasso di inurbamento e di sovrappopolazione è tra i più alti al mondo, così come il tasso di disoccupazione, pur essendo stato inondato da aiuti economici il cui livello pro capite è quasi il doppio di quello del Piano Marshall europeo del secondo dopoguerra.
Il dualismo che insanguinò l'area in quei lontani anni si ripropone ancora oggi all'interno del movimento palestinese e vede contrapporsi le componenti Hamas-Hezbollah-Brigate al Aqsa, eredi politici e ideologici del Gran Muftì e la leadership incarnata da Abu Mazen e da buona parte del suo governo (così come dal leader libanese Siniora), continuatori della linea moderata dei Nashashibi. Questa contrapposizione non fu solo interna al movimento palestinese e segnò nelle sue tragiche conseguenze l'assenza voluta di un qualunque confronto politico: solo con queste premesse si possono comprendere le ragioni che portarono il Gran Muftì a far assassinare nel 1941 a Bagdad il leader del clan dei Nashashibi, nel 1951 lo stesso Re Abdullah di Transgiordania, colpevole di voler ricercare un'intesa con Israele, nel 1958 Re Feisal II (nipote di Abdullah) e nel 1981 il presidente egiziano Sadat, colpevole di aver firmato un'intesa formale con Israele. Una serie di assassinii che hanno scaraventato nel baratro la storia del Vicino Oriente.
Ma se Israele è considerato illegittimo da quasi tutti gli stati arabi, esistono altre contraddizioni stridenti tra i fratelli arabi e musulmani: il Kuwait è considerato illegittimo dall'Iraq; la Siria rifiuta di avere rapporti ufficiali con Beirut, capitale di un territorio che i Siriani considerano proprio, tanto da non avere con il Libano relazioni diplomatiche e demarcazione ufficiale di confini; uno Stato palestinese indipendente viene considerato illegittimo dalla Siria, sempre memore delle sue aspirazioni alla "grande Siria"; la stessa sovranità giordana sulla ex Transgiordania viene considerata illegittima dai Palestinesi.
È comunque il conflitto con Israele che rende particolarmente incandescente la regione, come se questo conflitto si fosse caricato di un simbolismo ideologico ed emotivo per una presenza che è vista come una sfida lanciata da una minoranza nazionale e religiosa nei confronti della società araba e musulmana. Nelle masse arabe c'è una profonda delusione che nasce dall'incapacità della propria dirigenza di risolvere problemi che hanno poco a che fare con il problema di Israele: modernità, uguaglianza dei diritti, ritardo culturale e scientifico, debolezza economica e militare. È un confronto impietoso tra la situazione attuale del mondo arabo e la gloria di un passato spesso mitizzato.
La mitizzazione dell'epoca gloriosa dei primi quattro califfi ha posto le fondamenta per tutti i pilastri della nahda, la rinascita islamica propugnata dai movimenti fondamentalisti moderni, dai wahhabiti ai Fratelli Musulmani (dai quali discende il movimento Hamas) fino ad al Qaeda: anticolonialismo, antisionismo, rispetto della sharia, obbligo per il fedele di ribellarsi al falso governo islamico, proposizione del jihad come primo dovere di ogni musulmano al fine di perseguire il governo politico universale dell'Islam.
È uno scenario inquietante che si sta lentamente espandendo dalla sua area geografica originaria verso l'area occidentale: uno scontro di civiltà e di cultura che inevitabilmente coinvolgerà tutti noi.
Bibliografia.
- Pannella Carlo, "Il libro nero dei regimi islamici", Rizzoli, Milano 2006;
- Segre Dan Vittorio, "Le metamorfosi d'Israele", UTET, Milano 2006;
- Shlaim Avi, "Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo", Casa editrice Il Ponte, Bologna 2003.
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