EXCALIBUR 49 - giugno 2008
in questo numero

Pakistan: un paese in bilico

Il futuro di una nazione strategicamente fondamentale per la lotta al terrorismo è su una lama di rasoio

di Angelo Marongiu
Sopra: la posizione strategica del Pakistan nello scacchiere orientale
Sotto: Benazir Bhutto, assassinata il 27 dicembre 2007
«A costo di lacrime e sangue abbiamo imparato che le nazioni non nascono, ma si fanno»: è il concetto che Karl E. Meyer espone nel suo libro "La polvere dell'impero" a proposito delle nazioni inventate con la dissoluzione degli imperi coloniali europei. Il Pakistan è una di queste nazioni.
Normalmente le nazioni sono state costituite laddove era presente un'unità di lingua, territorio, sangue e cultura; a questi elementi, nel profondo novecento, viene aggiunto, a volte in termini sostitutivi, un ingrediente esplosivo: l'appartenenza etnica e la religione. Il Pakistan è una di queste nazioni.
Il Pakistan è il frutto di una spartizione affrettata, una prova del fallimento del disimpegno della Gran Bretagna dal suo impero coloniale. Esso ha frontiere porose, una popolazione multilingue con tratti di profonda diversità: la pretesa della sua unità poggia essenzialmente sull'Islam. Lo stesso nome "Pakistan" - una parola sia persiana che urdu, che significa "terra dei pak, gli uomini puri e onesti nello spirito" - è anche l'acronimo di Punjab, Afghania, Kashmir, Indus e Sindh.
Una sorta di revanscismo di matrice religiosa e le personalità conflittuali di Alì Jinnah, capo della Lega Musulmana e di Mohandas K. Gandhi, indiscusso leader del Partito del Congresso Nazionale Indiano, hanno portato all'infausta separazione del continente indiano in due nazioni; l'irrisolta controversia sul Kashmir e la tribolata nascita del Bangladesh nel 1971, hanno poi contribuito a perpetuare una contrapposizione dagli acri sapori esplosivi. Un guazzabuglio di popoli e luoghi diversi - a oltre sessant'anni dalla sua nascita - è la caratteristica pregnante del Pakistan, che dà ancora l'impressione di essere uno stato provvisorio, non ancora finito.
Nell'esaminare la situazione di questo controverso paese non bisogna dimenticare alcuni aspetti particolari della sua storia politica e religiosa. Mentre in altri paesi del mondo islamico aggregazioni come quella egiziana dei "Fratelli Musulmani" erano sorte per riformare la società, ma esplicavano la loro attività al di fuori del mondo politico, in Pakistan, nel 1941, quindi prima della nascita dello Stato, era sorto il "Jamat-e-Islami", un partito politico vero e proprio, fondato da uno dei più importanti (ed ignorati) leader del mondo islamico: Abul A'la Mawdudi. Il partito da lui fondato intravedeva nella conquista del potere il passo necessario per l'applicazione della sharia (la legge coranica) e per la creazione di uno stato islamico. Mawdudi era contrario alla creazione del Pakistan, ma egli la accettò e si batté perché la Costituzione - adottata nel 1956 - prevedesse che nessuna legge contraria all'Islam potesse essere promulgata e che lo spirito legislativo fosse conforme alla sharia. La costituzione del 1973 riconosceva inoltre, per la prima volta, l'Islam quale religione dello stato. Come già avvenuto in altri paesi, l'Islam diveniva un mezzo di espressione di rivendicazioni che, in un regime autocratico quale quello pakistano, non potevano essere manifestate altrimenti. Il generale Zia ul-Haq, che rovesciò con un colpo di conforme alla sharia. La costituzione del 1973 riconobbe poi, per la prima volta, l'Islam quale religione dello stato.
Come già avvenuto in altri paesi, l'Islam diveniva un mezzo di espressione di rivendicazioni che, in un regime autocratico quale quello pakistano, non potevano essere manifestate altrimenti. Il generale Zia ul-Haq, che rovesciò con un colpo di stato il primo ministro Alì Bhutto, nel luglio 1977, fece dell'applicazione della sharia la priorità ideologica della sua dittatura. Erano gli stessi anni del ritorno di Khomeini in Iran: ma mentre Khomeini privilegiava la rivoluzione verso lo stato islamico, Zia ul-Haq contrapponeva l'evoluzione pakistana verso lo stesso obiettivo. Il coinvolgimento del Pakistan nella resistenza afghana contro l'invasione sovietica fu il punto dal quale partì la corsa inarrestabile del paese verso una più completa islamizzazione. Nelle basi e nei campi di addestramento sorti attorno a Peshawar, dove era riunita la maggior parte dei tre milioni di profughi afghani, si formò il brod
o di coltura dell'islamismo internazionale: si mischiavano Afghani, Pakistani, Arabi e altri musulmani venuti da tutte le parti del mondo. Era una sorta di buco nero aperto a tutte le influenze, punto di arrivo dei finanziamenti arabi, dei flussi di armi americane, snodo di incontri di tutti i servizi di spionaggio, dalla Cia all'Isi pakistano. È in questo paesaggio caotico che le grandi organizzazioni dell'islamismo pakistano, quella di Mawdudi in particolare, realizzano la loro opera di colonizzazione. Il mix tra aiuti finanziari sauditi e aiuti militari americani - diretti verso i mujaheidin afghani - fu di fatto gestito dal partito religioso pakistano che ridistribuiva l'aiuto ai destinatari. Qui si formò la decisione occidentale di considerare il Pakistan il più stretto alleato nella guerra contro il terrorismo: era una scelta logica e obbligata, non c'erano alternative. Così come ora.
La storia politica del Pakistan è punteggiata da episodi misteriosi e dai mandanti sconosciuti e da un alternarsi di periodi di dittature militari e di governi democratici. Dall'esecuzione di Alì Bhutto da parte del generale Zia ul-Haq, alla morte dello stesso in un misterioso incidente aereo. Dal governo democraticamente eletto di Benazir Bhutto e Nawaz Sharif dal 1988 al 1998, eletti entrambi due volte, ma squassati dalle accuse di clientelismo e corruzione, fino al colpo di stato del generale Pervez Musharraf, che nel 1999 rovesciò il governo civile di Sharif. È questo il terreno che ha alimentato l'attuale situazione del Pakistan, che ai suoi abituali interrogativi e all'irrisolta dicotomia tra modernità e islamismo vede aggiungere nuovi motivi di confusione e incertezza dopo che, il 27 dicembre 2007, è stata uccisa Benazir Bhutto in un attentato a Rawalpindi. La scomparsa del capo del maggior partito di opposizione alle imminenti elezioni politiche, proietta una cupa ombra sul futuro del Pakistan.
Il regime di Musharraf è stato sempre tollerato - in nome della realpolitik - in quanto teoricamente garante di un efficace contrasto al terrorismo afgano. La realtà è ben diversa, considerando la permanenza del vertice di al Qaida nel Waziristan e il crescente rafforzamento dei talebani pakistani. Quindi, se Benazir Bhutto era considerata una valida alternativa a Musharaff, con la sua scomparsa si scopre che non esiste una seconda alternativa. Il futuro ora si gioca su una lama di rasoio. E guardare verso il passato alla ricerca di esperienze simili non è certo d'aiuto.
È indubbio che i principali interlocutori dell'area siano, ancora una volta, gli Stati Uniti. Nell'ambito dell'amministrazione americana c'è chi sostiene che bisogna appoggiare Musharraf ignorando qualunque dinamica politica interna al paese, come già si fece con Reza Pahlavi in Iran. La convinzione è che solo Musharraf sia in grado di controllare l'accesso all'arsenale atomico e di conseguenza anche il paese. Ma c'è anche chi si dice convinto che di fatto Musharraf abbia interrotto nel 1999 un decennio di lento processo democratico, non abbia proceduto ad alcuna riforma sul terreno politico e abbia lasciato immutate le strutture fondamentali dello Stato. Le sole riforme portate avanti sono state quelle economiche, con un crescente inserimento del paese nel mercato globale, con una grande apertura agli investimenti esteri e quindi con una forte ripresa, anche se con immensi costi sociali: esattamente come avvenne negli anni settanta con lo Scià.
L'assoluta mancanza di strategia che caratterizza la politica americana in Pakistan era dimostrata dalle pressioni Usa per un avvicinamento tra la Bhutto e Musharraf con lo scopo di creare un consenso più ampio da parte della popolazione nei confronti dell'attuale regime: il timore latente era che Musharraf fosse troppo solo nel magma politico e militare della regione. La scomparsa della Bhutto ha di fatto disciolto questa strategia. E non ne esiste una di riserva.
Quindi, alla fine, non resta che proteggere l'opzione Musharraf: la speranza è che egli continui a garantire che il Pakistan si fermi ancora una volta davanti al caos e al rischio di una drammatica implosione. L'unico obiettivo occidentale resta quello che a Islamabad regni l'ordine - di qualunque tipo esso sia - e quindi il potenziale atomico del paese resti saldamente nelle mani di una linea di comando ancora controllabile.
Il 18 febbraio scorso si sono tenute le tanto attese elezioni politiche, dopo una campagna elettorale tenuta in sordina per timore di nuovi attentati: a sorpresa esse hanno visto una devastante vittoria dei partiti di opposizione e il tracollo della Lega dei musulmani vicina al presidente. A rassicurare Washington contribuisce anche la sconfitta delle formazioni fondamentaliste nelle aree tribali, naturale bacino dell'integralismo. I due partiti, quello della Bhutto e quello di Sharif, possono quindi costituire un blocco assai vicino alla soglia dei due terzi del Parlamento: soglia strategica poiché è quella necessaria per avviare la procedura d'incriminazione di Musharraf (come puntualmente avvenuto nel mese di maggio).
L'unica strategia possibile, per il mondo occidentale, appare quella di collaborare con il nuovo governo che si costituirà e di dar fiducia al generale Kayani, succeduto a Musharraf alla testa delle Forze armate. Non si sa ancora cosa riserverà il futuro, ma il perno di qualunque scelta strategica resta sempre la lotta al terrorismo.
Bibliografia.
- Paolo Affatato e Emanuele Giordana, "A oriente del Profeta" (ObarraO, Milano 2005)
- Gilles Kepel, "Jihad, ascesa e declino: storia del fondamentalismo islamico" (Carocci, Roma 2001)
- E. Karl Meyer, "La polvere dell'impero: il grande gioco in Asia Centrale" (Corbaccio, Milano 2003)
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