EXCALIBUR 56 - ottobre 2009
in questo numero

Afghanistan: il momento delle scelte

È in gioco ancora una volta la credibilità del mondo occidentale

di Angelo Marongiu
Le truppe occidentali a presidio della libertà in Afghanistan
Nelle brevi de "Il Foglio" di oggi, 18 settembre, leggo:
«Yemen: 87 morti per un raid aereo compiuto dall'aviazione yemenita... combattimenti in corso tra le forze governative e ribelli sciiti»,
«Somalia: 11 morti per due esplosioni... attentato rivendicato da Shabaab, milizie islamiche vicine ad al Qaeda»,
«Ucciso in Indonesia il capo di al Qaeda»,
«Kabul: muoiono sei parà italiani, quattro feriti... l'attentato rivendicato dai Talebani di al Qaeda».
Nella quotidiana ecatombe mondiale anche l'Italia ha pagato il suo tributo di sangue.
Certo anche in Italia le tragedie non mancano: hanno spostato di due giorni la trasmissione "Ballarò"; Berlusconi ha sporto querela contro "La Repubblica" e "L'Unità" e anche Fini non gli è stato da meno; Boffo si è dimesso; l'estate sta finendo e via discorrendo.
Continuiamo imperturbabili a rimirare il nostro ombelico convinti che attorno a esso ruoti tutto il mondo. E dimentichiamo che le radici che nutrono l'albero della nostra libertà hanno origine anche lontano da noi, perfino in Afghanistan.
Certo, uno sguardo alla faccia di Karzai e si pensa alle elezioni che lo hanno riconfermato Presidente e ai brogli conclamati e ci si chiede se valga la pena di morire per lui.
Ma non dobbiamo dimenticare cos'era l'Afghanistan nel 2001, con i talebani che governavano il paese in nome della sharia; le lapidazioni delle adultere negli stadi durante l'intervallo delle partite di calcio; Osama Bin Laden che progettava le sue azioni: un punto nevralgico dell'Asia centrale era diventato il crocevia impazzito del terrorismo islamico.
Dall'inizio della guerra - otto anni fa - sono morti più di 1.400 soldati: gli Americani hanno avuto 830 caduti e gli Inglesi oltre 210. Noi Italiani abbiamo avuto 20 morti.
Ora i Talebani controllano di nuovo alcune province e il paese continua a produrre oltre l'80% dell'eroina consumata nel mondo.
È sconsolante ciò che il nostro sguardo vede in quel lontano paese e ci si chiede se è giusto pagare tanto sangue perché le donne afghane possano - se vogliono - andare senza burqa e le ragazze tornare a scuola come una volta.
In realtà, e non è difficile capirlo, siamo laggiù non per Kabul, ma per noi stessi; non per mettere d'accordo tribù e fazioni rivali, ma perché Kabul e i suoi orrori sono ormai diventati un simbolo, perché andar via dall'Afghanistan significa rinunciare a combattere contro il fanatismo, contro il terrore, contro quell'ideologia che si nutre solo di fede e hadimenticato che essa deve essere accompagnata dalla ragione, come bene sottolineò Benedetto XVI a Ratisbona, sbeffeggiato allora da chi antepone ancora oggi l'ideologia all'intelligenza.
Bisogna sfuggire a questa sindrome di incertezza che ha colpito tutti, da Bossi a Berlusconi: essa fa sentire più solii soldati italiani che combattono laggiù.
È una guerra che sembra impossibile poter vincere, e questo lo avvertono non solo gli Stati Uniti, ma anche gli altripaesi coinvolti. L'Afghanistan è di Obama e del suo generale McChrystal, come l'Iraq era di Bush e di Petraeus: ma qualunque indecisione, qualunque cedimento spingerebbero di nuovo quel paese nelle mani dei talebani.
Non si sa quali strategie gli Stati Uniti intendano mettere in atto, perché la guerra in corso non è solo militare. Su Karzai, ad esempio, si faranno pressioni per convincerlo a formare un governo di unità nazionale che includa anche le altre etnie, soprattutto i Tagichi del nord che egli, Pashtun del sud come i Talebani, non vede di buon occhio.
Ma - secondo il "New York Times" - è Obama che non sa cosa fare: se continuare con l'opzione militare e civile, oppure lasciare che gli Afghani se la sbroglino da soli e limitarsi a colpire al Qaeda con raid a sorpresa. Abbandonare la strategia di counterinsurgency a favore dell'antiterrorismo. Abbandono quindi di Stanley McChrystal, che ha chiesto altre truppe, e ha affermato che la coalizione ha un anno di tempo per vincere questa guerra, e accoglimento delle tesi del suo vice Joe Biden che vuole ridurre l'impegno militare.
Bisogna anche tener presente che i Talebani hanno diversificato notevolmente la loro strategia. Intanto l'attentato contro gli Italiani, a soli 800 metri dall'ambasciata americana, dal quartier generale dell'Isaf e dal palazzo presidenziale - vicino alla rotonda Massoud (ironia della sorte!) - dimostra la loro capacità di penetrare fino ai confini della cosiddetta "zona verde". Fuori dai centri urbani continuano le imboscate con esplosivi artigianali, cariche di mine e granate, come a Farah e Bala Murghab.
A fine agosto, nella provincia di Herat controllata dagli Italiani, sono state sequestrate partite di armi iraniane (razzi, detonatori, Ied perforanti e altri ordigni a carica cava in grado di perforare le corazze dei mezzi più pesanti), dello stesso tipo che gli Iraniani hanno gentilmente offerto ai ribelli in Iraq, agli Hezbollah in Libano e ai Palestinesi di Hamas. Questa sì che è globalizzazione e noi continuiamo a gingillarci con i veti dell'Onu.
Per ora il cambio di strategia occidentale si avverte nel lessico utilizzato. Si parlava di "stabilizzazione", ora si parla di "transizione" verso l'autonomia afghana nel garantire la sicurezza del paese. Si stima la necessità di almeno 400 mila uomini, un terzo tra gli alleati e il resto tra gli Afghani. Ora ci sono circa 100 mila soldati alleati, ma gli Afghani sono meno di 180 mila, non tutti di provata affidabilità e onestà. Ma, trovati gli altri soldati necessari, quanto dovrebbe durare questo periodo di "transizione"?
Infine, dove colpire? E chi?
I gruppi ostili sono almeno tre: i Talebani storici che fanno capo al guercio mullah Moahammed Omar, il numero due dopo Osama bin Laden nascosto, forse, nel capoluogo pakistano del Belucistan; poi gli studenti guerriglieri, residui ideali del periodo della resistenza contro i Sovietici, che fanno capo a uno degli ultimi "signori della guerra" afghana, Gulbuddin Hekmatyar; e infine una banda disordinata di Ceceni, Arabi, Uzbechi, Pakistani - annidati nella zona degli Italiani - che rispondono al mullah Sultan, un ex prigioniero di Guantanamo: truppa spicciola disposta a morire per dieci dollari.
Le brevi dell'inizio sembra che disegnino una strategia che punteggia la carta geografica del mondo: l'Islam - sunnita o sciita che sia - ha comunque come obiettivo quello di instaurare un califfato in tutto il mondo.
Gli interventi occidentali, dopo il crollo delle torri di New York, avevano un senso se collegati a una strategia di trasformazione del Medio Oriente e quindi di contenimento dell'islamismo terrorista.
Limitarsi a sopravvivere in qualche regione, rinunciando alla strategia di stabilizzazione globale di tutta l'area, equivale a una resa.
Se non si combatte per vincere, si va incontro solo ad altre stragi, ancor più dolorose perché inutili.
Ricordiamolo sempre: le radici della nostra libertà sono a otto ore di volo da Roma.
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