EXCALIBUR 58 - febbraio 2010
in questo numero

L'ingiusta proposta delle due aliquote fiscali

Strategia per lo sviluppo o demagogia?

di Ernesto Curreli
La semplificazione della tassazione resta comunque un obiettivo da perseguire
Nelle scorse settimane, il presidente Berlusconi si è lasciato scappare l'ipotesi di portare a due le aliquote fiscali, una "minima" al 23% e l'altra al 33%. Ma ha fatto una figuraccia pochi giorni dopo, vedendosi costretto a smentire sé stesso («sono stato frainteso, come al solito») dopo la levata di scudi di un vasto schieramento di politici ed economisti di entrambi gli schieramenti. Non si può dire che sia una novità, perché aveva avanzato la stessa proposta nel 1994 e nel 2001. Poi non ne fece nulla, alimentando il sospetto che anche oggi si tratti di una sparata propagandistica nell'imminenza delle elezioni regionali del 2010.
Questa visione fiscale è avversata anche dalla destra che si richiama ai valori della socialità, perché è simile a quella che ispirò i governi ottocenteschi, poco attratti dalle esigenze di ridistribuzione della ricchezza a favore delle fasce popolari marginali e incuranti della progressività impositiva sui redditi: chi ha molto deve contribuire di più e chi possiede poco deve poter contare sull'aiuto della comunità, purché non si trasformi in un parassita sociale. Perché questo è il rischio e spesso l'esito delle società moderne.
Di fatto la proposta delle due aliquote è deleteria, perché introdurrebbe una flat tax del 23% per la stragrande maggioranza dei contribuenti, penalizzando l'Erario con una perdita del gettito pari a un punto e mezzo percentuale del Pil. Scomparirebbero, infatti, le aliquote dal 27 al 43% con conseguenze sul bilancio dello Stato oggi impossibili da sopportare, per di più premiando quell'esiguo 0,9% di contribuenti che risulta al di sopra della soglia di reddito di 100 mila euro, con un calo del carico fiscale dal 45% al 33%. Già il governo Prodi aveva colpito pesantemente la maggioranza dei contribuenti italiani (dipendenti, pensionati, artigiani, piccoli commercianti, autonomi in genere) aumentando d'un colpo l'aliquota minima dal 19 al 23%, tanto che gli elettori gliela fecero pagare riportando al governo il Cavaliere.
Berlusconi oggi nemmeno si sogna di riportare l'aliquota più corposa, appunto l'attuale 23%, a quella precedente del 19%: come potrebbe? Tutti parlano di abbassare il carico fiscale, tutti sostengono che la pressione fiscale sta spingendo molte imprese a uscire dal mercato, ma nessuno ha il coraggio di arrestare la spaventosa spesa pubblica che aumenta di mese in mese. Una spesa che, considerati gli scarsi investimenti statali in infrastrutture, appare sempre più, se non clientelare, perlomeno improduttiva e parassitaria.
Nell'Ottocento i governi non erano ancora preparati a sviluppare sistemi di prelievo fiscale equi, sia perché nelle società dell'epoca mancava la cultura della solidarietà, sia perché il censimento fiscale personale era imperfetto.
Perciò risultava più facile assicurare le entrate statali attraverso l'imposizione indiretta, la forma più ingiusta e odiosa di prelievo. Chi era ricco pagava con minore sacrificio quello che il povero pagava nella stessa misura. Dazi di confine, servizi pubblici, generi di monopolio (allora erano diffusissimi) e tasse sul macinato o sui consumi erano un mezzo comodo per fronteggiare le spese delle corti e delle guerre. Il Regno di Sardegna, man mano che annetteva gli stati della penisola, con questo sistema inaspriva l'imposizione e praticamente raddoppiava il carico fiscale sugli individui. Nel Regno delle Due Sicilie, ad esempio, la tassazione rilevata nel 1859 era di soli 14 franchi a testa, mentre nel 1866, appena sei anni dopo l'Unità, era arrivata a ben 28 franchi, il doppio.
Il nuovo Regno d'Italia non faceva altro che perpetuare il sistema medievale di prelievo, allargando a dismisura l'imposizione indiretta. È insomma un sistema arcaico che però piace molto alle categorie imprenditoriali e abbastanza poco alla popolazione. Non per caso Montezemolo, nel maggio 2005, nell'assemblea di Confindustria, chiedeva di «riequilibrare il prelievo spostando il carico fiscale verso l'imposizione indiretta». Come se non bastasse che la gente comune paghi le accise sui carburanti o l'Iva su tutti i generi di largo e quotidiano consumo.
In passato l'imposta sui consumi di generi di monopolio era talmente importante che spesso il loro possesso scatenava o concludeva le guerre. Quando nei primi decenni del Trecento gli Aragonesi si impossessarono della Sardegna, una delle condizioni contenute nel trattato di pace con la Repubblica di Pisa era che a questa rimanessero gli introiti delle saline di Santa Gilla e del Molentargius e quelli sul pescato dello stagno di Santa Gilla. Come noto, il sale nell'antichità era il "frigorifero" della gente per la sua capacità di conservare gli alimenti e quindi era un genere di larghissimo consumo, tassato allo smercio. Quando poi, per causa di Pisa, la pace venne infranta con la cacciata definitiva dei Pisani dall'Isola, i proventi delle saline e del pescato vennero immediatamente inglobati nel fisco della Corona d'Aragona e così rimasero per secoli, fino ai Savoia. Tuttora, tra i Cagliaritani anziani, la torre militare posta all'ingresso delle acque di Santa Gilla è conosciuta come la "Quarta Regia", a ricordare che lì veniva prelevato un quarto del valore complessivo del pesce pescato nello stagno statale.
Oggi le imposte indirette sono considerate ingiuste, così come ingiusta appare un'eccessiva tassazione sul reddito personale, perché trasferisce allo Stato quel tanto di disponibilità monetaria che residua dalla sopravvivenza e che invece potrebbe riversarsi sui consumi e quindi sulla produzione e sull'occupazione. Ma la crisi economica che colpisce l'Italia e l'intero Occidente sembra non lasciare molte alternative allo stato di fatto. Se ci fossero vere condizioni di ripresa, cosa che appare ancora dubbiosa, allora certamente converrebbe a governo e cittadini una robusta riduzione delle imposte, ma così purtroppo non è.
Quindi Berlusconi e governo non possono fare altro che giocare sulle parole e sui numeri, ma sono impotenti di fronte alla pesante realtà. Il centrodestra, così come il centrosinistra, non vuole per nessuna ragione correre il rischio di perdere voti mettendo ordine alle spese. Una realtà che vede una mostruosa spesa pubblica necessaria a sostenere circa 4,5 milioni di cittadini dipendenti dello Stato e del parastato, a mantenere diverse "caste" di privilegiati che vivono tra sprechi e sfarzi incredibili.
Pensate alle spese del Quirinale, divenuto nei decenni una nuova corte reale non ereditaria, pensate agli incredibili stipendi e alle pensioni di parlamentari nazionali e regionali, pensate all'alta burocrazia statale ma anche agli stipendi dei cuochi del Presidente della Repubblica e dei commessi del Parlamento, agli stipendi dei magistrati, dei baroni della sanità e delle università. Pensate quanto costa mantenere coi denari pubblici i sindacati e le centinaia di giornali quotidiani che godono del nostro "sostegno" finanziario, pensate allo scandalo del finanziamento pubblico ai partiti, abolito con un referendum popolare, ma ripristinato e raddoppiato col voto di tutti i partiti. A quanto costano centinaia di migliaia di consiglieri comunali, provinciali, delle comunità montane e delle centinaia di enti pubblici.
Pensate al fiume di nostro danaro per i pletorici consigli di amministrazione dei consorzi e dei parchi statali, delle aree terrestri e marine "protette". Così vi spiegherete, anche, per quale motivo si scatenino sanguinose guerre politiche per sistemarvi amici e grandi elettori.
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