EXCALIBUR 59 - aprile 2010
in questo numero

La svolta centralista di Cappellacci

Sulle energie rinnovabili il Presidente ha cambiato idea. Perchè?

di Ernesto Curreli
Sopra: Ugo Cappellacci
Sotto: energie alternative
Non si può certo dire che Ugo Cappellacci e la Giunta regionale, di fronte alla crisi industriale che investe la Sardegna, siano rimasti a guardare. Anzi, hanno saputo picchiare duro tentando di salvare il salvabile per Portoveseme, Equipolymers, ex Ila, ex Nuova Scaini, Vinyls, Eurallumina e tante altre aziende entrate in crisi o in dismissione. Il Comitato interassessoriale, dispiegando un'azione corale come mai era accaduto prima, ha intrapreso un inedito e deciso confronto con lo Stato per trovare una dignitosa soluzione.
Il presidente ha percorso i territori industrializzati, stabilendo un contatto umano e di solidarietà con i lavoratori, tanto che tra i governatori regionali risulta godere di un alto indice di popolarità. Cappellacci, cosa che mai avevano fatto i precedenti governatori, ha persino minacciato il sequestro pubblico dei siti industriali in caso di ingiustificato abbandono delle produzioni nell'Isola. Cosa davvero notevole, che gli rende grande merito e che rivela un carattere coraggioso. Con lo stesso spirito battagliero, abbandonate le "ingessature" del ruolo istituzionale, si è recato tra i cassintegrati che hanno occupato simbolicamente l'Asinara, dove è stato accolto con simpatia dai lavoratori.
La crisi industriale sarda, si sa, viene da lontano, e oggi sconta errori strategici difficilmente sanabili. La Sardegna, fin dagli anni sessanta, aveva puntato molto sulla petrolchimica e poco sull'industria manifatturiera, sui servizi, sull'agricoltura. Nello stesso periodo il settore turistico aveva diffuso l'illusione di una lenta, ma costante, benefica ricaduta di valore aggiunto per tutta l'economia sarda. La realtà, purtroppo, aveva ben presto dimostrato che, esclusi i grandi poli dotati di servizi della Costa Smeralda, di Chia, di Alghero e Villasimius, ben poco rimaneva nel resto del territorio isolano.
Le politiche protezionistiche a favore della nascente industria, supportate da leggi che obbligavano immissioni massicce di spesa pubblica a sostegno clientelare dei grandi gruppi italiani, calati nell'isola più per rastrellare fondi che per immetterne, alla fine hanno prodotto il risultato che conosciamo. Difficile prevedere oggi se la Sardegna rimarrà o meno una regione con alta concentrazione di industrie petrolchimiche. La crisi produttiva che investe tutto il Globo e l'inarrestabile corsa alla delocalizzazione degli stabilimenti produttivi verso Paesi con più basso costo di mano d'opera sembrano delineare un quadro poco rassicurante per i siti industriali sardi. D'altra parte, diciamoci la verità, in Sardegna esistono soltanto i siti e non i distretti industriali, cosa ben diversa. Intorno a quegli agglomerati mancano le imprese dell'indotto, i servizi, le strade, le fonti di energia, le "autostrade" del mare, le scuole di formazione per meccanici, saldatori, chimici. Mancano persino i mercati di sfogo. Meglio ancora, i mercati sono lontani, e gli insopportabili costi di trasporto via mare fanno di noi, fino a quando non ci sapremo dotare di una diversa strategia di trasporti, una regione condannata a uno stentato sviluppo.
Allora l'alternativa non può che passare nello sviluppo dell'industria turistica, in costante espansione in tutto il mondo grazie alla modifica dello stile di vita delle società, nel rafforzamento delle industrie manifatturiere isolane e nella rinascita dell'agricoltura e dell'allevamento isolani. Sarebbe un modo più naturale e congeniale rispetto alle potenzialità sarde, capace di suscitare anche nei territori dell'interno una ripresa più alla portata della gente e della fragile struttura finanziaria delle borghesie locali.
In questo quadro, e considerata la capacità reattiva del governo regionale, appare del tutto incomprensibile la recente politica di Cappellacci sull'energia rinnovabile. Con una delibera di giunta del 12 marzo 2010 viene stabilito che una nuova società, Sardegna Energia, sarà chiamata a controllare tutto il mercato delle fonti rinnovabili di energia, quasi che fossimo in un regime a economia centralizzata, avendo per obiettivo dichiarato quello di privilegiare i principali operatori del settore, ritenuti più esperti e affidabili. Vale a dire che verranno tagliate fuori tutte le piccole imprese sarde che già operavano nel ramo. A questo si aggiunge l'incredibile decisione di accentrare a livello regionale ogni singola richiesta di autorizzazione, persino per piccoli impianti domestici, bloccando di fatto le molte centinaia di pratiche giacenti presso i Comuni.
Nella sostanza, viene detto che si introduce il blocco degli impianti rinnovabili sia per limitare i negativi impatti ambientali, sia per impedire la speculazione o la "colonizzazione" del settore in Sardegna. Il principio è nobile, però colpisce soprattutto i Sardi. Il paradosso del provvedimento è lampante: la Sardegna produce energia da fonti non rinnovabili per il 96 per cento con negativi effetti ambientali, ma si condanna tutta la tecnologia isolana che, pur di piccole dimensioni, poteva rappresentare una valida alternativa energetica per l'agricoltura e l'industria, ed era in grado di assicurare una buona fonte di reddito per molti. A vantaggio dei grandi gruppi che invece si volevano tenere al di là del mare. Con una ulteriore presunzione altrettanto incredibile, perché nella delibera si dichiara di voler gestire direttamente il mercato, cosa invece contraria al Trattato di Lisbona, che vieta tali forme di controllo nei mercati.
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