EXCALIBUR 64 - marzo 2011
in questo numero

Ma in Africa ritorneremo...

Occorre mantenere la posizione di privilegio conquistata con intelligenza

di Angelo Abis
Sopra: Libia - superficie 1.759.840 kmq, popolazione 6.120.585 ab., densità 3,5 ab./kmq, Pil pro capite 14.192 $ (56º)
Sotto: il premier Silvio Berlusconi e il "rais" Muammar Gheddafi
Non erano passati molti anni dalla costituzione del M.S.I., che il fondatore del partito, Pino Romualdi, in un comizio pronunciò la fatidica frase: «non so come e non so quando, ma io vi dico che in Africa ritorneremo!».
La frase diede luogo a commenti salaci da parte della stampa comunista e a una qualche ironia negli stessi ambienti missini, non sempre teneri nei confronti del linguaggio e delle pose, un po' "ducesche", del pur validissimo leader romagnolo.
Commenti e ironie fuori luogo, perché già a partire dal 1946 l'Italia "democratica, antifascista, nata dalla Resistenza", era impegnata, come un sol uomo, con i comunisti in testa, in una lotta durissima contro gli alleati, per mantenere il possesso delle colonie acquisite prima del fascismo (Eritrea, Somalia e Libia), infischiandosene anche del parere dei nostri ambasciatori più avveduti, i quali, intravedendo già la forza dirompente del nazionalismo arabo, asserivano che, in quel frangente, le colonie era meglio perderle che ritrovarle.
Per venire alla Libia, l'osso più duro era rappresentato dall'Inghilterra che, in ogni caso, voleva conservare il possesso della Cirenaica, tanto da impedire ai coloni italiani, che avevano abbandonato quella regione dopo l'ultima avanzata inglese del '42, di rientrare in possesso dei propri poderi.
Sembrava che nel 1949, a seguito del compromesso Sforza (Ministro degli Esteri italiano) e Bevin (Ministro inglese), l'Italia potesse ottenere l'amministrazione della Tripolitania, ma la cosa non andò in porto per l'opposizione dei paesi emergenti, dell'Onu e dell'Unione Sovietica.
Nel 1952, poi, la Libia si costituiva in regno federale sotto Re Idris, già capo della potente setta politico-religiosa dei Senussiti e già emiro della Cirenaica. Re Idris era in realtà una marionetta manovrata dagli Inglesi, tant'è che quando Mattei ottenne, nel 1957, importanti concessioni petrolifere in Libia, queste furono revocate, nello spazio di 24 ore, dal re, su richiesta degli Inglesi.
Re Idris, che, in sostanza, rappresentava la vecchia struttura aristocratica e feudale che era sopravissuta solo in Cirenaica, governò sino al settembre 1969, allorché il giovanissimo colonnello Gheddafi si impadronì del potere con un colpo di stato. "La "rivoluzione" riuscì perché dietro il Re Idris c'era il deserto politico e culturale, non esisteva una classe dirigente al di fuori di cortigiani, mercanti e finanzieri infeudati a interessi stranieri.
La nuova classe dirigente cominciò con Gheddafi e comprese in larga misura i suoi amici e compagni d'arme, espressione degli studenti della piccola borghesia libica. Questa nuova classe prese come modello Nasser, visto come l'araldo della rinascita della patria araba, e l'Italia come nemico storico, da usare come cemento della nuova nazione.
L'anno dopo, infatti, nel luglio del 1970, Gheddafi espulse dalla Libia i ventimila Italiani che ancora vi risiedevano e proclamò la giornata successiva del 7 ottobre "giornata della vendetta".
A questo punto, ci si sarebbe aspettati la finis Italiae nella nostra ex quarta sponda, ma invece, proprio a partire dagli anni '70, la storia si prese gioco della logica troppo prevedibile dei cosiddetti "esperti". Gheddafi infatti non poté ignorare che gli allora governi italiani di centrosinistra erano ben accetti nel mondo arabo.
Gli Egiziani non avevano dimenticato che durante la crisi di Suez del 1956 gli Italiani si mossero a loro favore, così come gli Algerini non avevano scordato l'aiuto più o meno occulto, ma non per questo meno sostanzioso, che l'Italia diede alla loro lotta contro la Francia.
Pian pianino ripresero i contatti ufficiali e non. E già nel 1976 l'Italia diventò il primo fornitore del mercato libico, il secondo acquirente di petrolio e il destinatario, dopo gli accordi con la Fiat, del più grosso investimento libico all'estero.
Per farla breve, arriviamo ai giorni nostri e cioè alla stipula del trattato di amicizia del luglio 2008. Su questo trattato si è scritto molto e di più, spesso a sproposito, su aspetti marginali e folcloristici riguardanti per lo più le "eccentricità" dei leaders firmatari: Berlusconi e Gheddafi.
È sfuggito ai più che, per la prima volta dal 1940 (allora furono i Russi a proporci un trattato di amicizia: non accettammo per non urtare la suscettibilità dei Tedeschi), ci veniva proposto un accordo politico-militare che andava ben oltre le questioni economiche, e non riguardava affatto, come invece si è voluto far credere, la cosiddetta politica dei respingimenti, già regolamentata da un accordo stipulato nel 2007 con il governo Prodi.
A parte il fatto del riconoscimento dell'Italia come grande potenza, perlomeno nel Mediterraneo (nessuno stato sovrano si allea con chi non ha un minimo di leadership regionale, se non mondiale), si prospettava per l'Italia la possibilità di una forte espansione economica (e politica) in tutto il continente africano, derivante dal fatto che Gheddafi non era solo il capo dello stato libico, ma anche, dal febbraio 2009, il presidente dell'Ua (l'unione di tutti gli stati africani).
Per l'Italia, l'aspetto più spinoso della questione era dato dal fatto che dovevamo scusarci del nostro passato coloniale. Il che ci metteva contro tutte le ex potenze coloniali europee assolutamente contrarie a una cosa del genere. Vi erano poi clausole militari che potevano metterci in rotta di collisione con la Nato e quindi con gli Stati Uniti.
Berlusconi, sorvolando sui malumori soprattutto inglesi e americani, stipulò il trattato. I risultati di questi due anni di alleanza sono sotto gli occhi di tutti: petrolio e gas a gogò e a prezzi stracciati (e segreti), l'economia libica, dalle strade alle ferrovie, dalle scuole alle banche, dallo sfruttamento delle fonti energetiche al turismo, data in appalto agli Italiani per decine di miliardi di euro, delegazioni economiche italiane accolte a braccia aperte in tutti gli stati africani.
Poi, all'improvviso, non più di un mese fa, un strano vento è incominciato a soffiare nel mondo arabo: rivolte prima in Tunisia, poi in Egitto, in Libia, Yemen e tanti altri paesi. Tutti colti di sorpresa: ambasciatori, servizi segreti, "esperti" del mondo arabo e musulmano, mercanti e finanzieri. Nessuno sa dare una spiegazione e, forse proprio per questo, tutti hanno trovato il capro espiatorio nei dittatori ovviamente "sanguinari", per cui, vedi il caso Gheddafi, non appena si è avuta la certezza della sua sconfitta irreversibile, tutti invocano sanzioni, interventi militari.
Ma al di là di tutte le cortine fumogene, dei consigli da operetta dei tanti moralisti nostrani, tutto Onu e Obama, si pone per l'Italia, ancora una volta, il quesito: che fare in Libia?
Certo, dobbiamo lasciare Gheddafi al suo destino - sempre che i suoi oppositori riescano a farlo fuori - ma non perché è un dittatore o perché fa sparare sui propri concittadini, ma per una ragione molto più semplice: perché perderà (se lo perderà) il potere; e in politica, così come nei rapporti fra gli stati, è questo che conta.
Poi occorre, sempre che non lo stiamo già facendo, interloquire con i ribelli per verificare quale sarà il loro atteggiamento nei nostri confronti e ribadire i nostri interessi nella regione.
Una cosa non dobbiamo assolutamente fare: denunciare il trattato di amicizia. È l'unica arma che ci consente di non essere impunemente scippati di quanto con sacrificio e intelligenza siamo riusciti a riconquistare nella nostra ex colonia. E poi ricordiamoci di una cosa: contrariamente a quello che pensiamo noi, usi a piangerci addosso e a denigrarci da secoli, l'Italia del 2011, è la più forte potenza del Mediterraneo e del Vicino Oriente non solo in termini economici, ma anche in termini militari e nessuno, dico nessuno, può pensare e pensa di poter intervenire in Libia senza il beneplacito dell'Italia.
Il carissimo Romualdi, dall'alto, può dormire sonni tranquilli: in Africa siamo tornati e in Africa rimarremo.
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