EXCALIBUR 65 - luglio 2011
in questo numero

Il Giappone e la lezione di vita

L'"impermanenza" del sé come base dei comportamenti

di Angelo Marongiu
Sopra: il pino del Giappone, simbolo della vita che non si arrende: ogni giorno volontari gli portano acqua dolce affinché continui a vivere
Sotto: la stagione dei ciliegi in fiore è uno dei periodi più toccanti della cultura giapponese: gli antenati vengono a visitare i loro discendenti e la fioritura è il modo poetico di dar loro il benvenuto
L'onda opaca dello tsunami avanza, invade strade, città, trascina con sé un'infinità di detriti e macerie e anche automobili, alberi, navi, case.
Lo sguardo del Giapponese sembra inespressivo, come se osservasse tutta quella distruzione da un'inaccessibile distanza. Una calma "orientale" che a noi occidentali - pronti a disperarci per ogni cosa, individualisti, rissosi e boriosi, gelosi del particolare personale e non del bene comune - crea una specie di invidia.
Questa calma surreale non è frutto del caso, ma fa parte di un'educazione di vita e di una filosofia che a noi appare oscura. Così come misterioso ci appare il loro senso di appartenenza, non il "rispetto" ma il culto delle cose e delle persone.
Questo modo di essere e di rapportarsi con il "fuori di sé" poggia le sue basi sulla cultura tipicamente orientale, sulla religiosità buddhista-scintoista, pilastro dell'intima essenza del Giappone stesso.
Il rimando a Mishima, da taluni fatto, pare illuminante: la sua morte rituale, il suo seppuku di protesta in diretta TV, nel novembre 1970, è stato il modo cruento per raggiungere il vuoto metafisico, inseguito da sempre. Margherite Yourcenar lo descrive vivamente nel suo breve saggio "Mishima o la visione del vuoto", legata com'era anch'essa al culto dell'"impermanenza" delle cose. La morte a questo punto, attesa "ad occhi aperti" come il suo Adriano, non è altro che una forma, seppure imprevedibile, di un mondo in perpetuo movimento del quale noi tutti facciamo parte.
Il buddhismo è parte fondamentale di questa visione delle cose. Esso nega l'essere, lo ignora: esiste solo il passaggio, il fluire delle cose. Tutto passa. Tutte le cose, la vita stessa, attraversano l'individuo, al quale non rimane che la realtà dell'essere, un solo istante, quasi cristallizzato, che rapidamente muta ed è sostituito da un altro istante che si ripete, ma non è più lo stesso. È come bagnarsi nello stesso fiume, in continuazione, ma l'acqua è sempre diversa.
È un concetto caro a Eraclito, ma ancor più al buddhismo che ne ha fatto regola di vita.
Se trascorriamo la vita sotto la tirannia del desiderio, se per il bene della nostra esistenza accresciamo la nostra illusione, il danno che faremo a noi stessi sarà ben grande e distruggerà la speranza di ottenere la felicità ultima. Poiché tutto fugge e muta, l'"impermanenza" delle cose porta in sé il vuoto e predispone all'annullamento del sé - essenza dell'essere - inseguito da chi, come Mishima, vive la sua vita con questo scopo sublime ed estremo.
È un concetto intrinseco nella visione budhista-scintoista del mondo.
Nello scintoismo la percezione della natura è decisamente diversa da quella giudaico-cristiana. Per noi la natura è al servizio dell'uomo, che quindi cerca di dominarla; per gli orientali essa fa parte di un unico universo e ha essenza divina come tutte le cose.
E mentre nella nostra cultura religiosa noi siamo "immagine" di Dio e dobbiamo quindi cercare la perfezione per avvicinarci a Esso, per gli scintoisti la rinuncia al desiderio, la rinuncia a ogni ossessione, comprende anche la rinuncia al "sé". L'uomo è come l'aria, nessuna trascendenza, non il bene e il male, nessuna verità, se non la verità ultima, che è data dalla passività assoluta.
Se per noi Dio è il creatore e la natura è la sua opera, per gli orientali la divinità è nella natura, generata da sé stessa e pertanto permeata di divino, come gli esseri umani. Essenza divina che abbraccia ogni cosa: uomini, alberi, sorgenti, fiumi, cascate, monti. Sono i kami, forze spirituali di origine sia naturale che umana, vincolati ai luoghi e alle cose. E nella filosofia scintoista (shinto significa "via degli dei") i kami sono presenti negli oggetti concreti della natura: da qui il rispetto assoluto per la natura in sé, ma anche delle sue manifestazioni. Come nel fiorire dei ciliegi o nell'onda dello tsunami.
Assurdo? Ma nel buddhismo scintoista uomini e natura fanno parte di un'unica realtà inseparabile.
La natura - reale apparente e apparenza del reale - è sacra, e sacre sono le sue manifestazioni. L'uomo, intimamente legato alla natura e di essa parte integrante, ha anch'esso natura divina che mantiene anche dopo la morte, diventando uno spirito, un antenato che continua a essere presente e a influenzare il corso degli eventi.
Da qui la grande importanza all'aldilà e alla vita dello spirito. Gli spiriti dei morti sono sempre vicini, essi si radunano nei monti e ogni tanto vengono a visitare i loro cari. Dopo la morte il corpo torna nella natura ed è per questo che lo spirito è sempre stato considerato più importante. La primavera, stagione in cui fioriscono i ciliegi, è uno dei periodi in cui i morti visitano il mondo degli esseri viventi: la contemplazione dei fiori di ciliegio, hanami, è il modo rituale di dare il benvenuto agli spiriti che tornano in terra.
Ecco perché nelle case giapponesi ci sono gli altari con le immagini dei propri cari defunti: essi, ritornati alla natura, assumono la funzione di dio e protettore del luogo. Continua così lo stretto legame tra i vivi e gli antenati defunti, una relazione continua tra questi ultimi e il gruppo d'origine cui continuano ad appartenere. La morte non è una punizione, non è la fine delle cose. Dopo la morte la vita continua in altra forma: essa viene accettata come un fatto naturale. La vita e tutte le sue manifestazioni sono quindi accettate con impegno ed entusiasmo, dal divertimento al lavoro.
La purezza intesa anche in senso materiale (l'acqua e il bagno quotidiano sono parte della natura del Giapponese) è il fine ultimo delle cose e degli esseri viventi. Accanto alla purezza materiale dovrà essere presente - e divenire regola di vita - la purezza della vita che si manifesta come corrispondenza tra realtà e dovere, tra sentimento interno e apparenza esterna. L'imperturbabilità apparente dei volti del Giappone attraversato da questa immane catastrofe non è altro che lo specchio fedele di questa loro religiosità.
Nel regno dell'"impermanenza" tutto è provvisorio. E la calma serafica con cui il Giapponese sembra reagire alla catastrofe, un'apparente accettazione senza opporre resistenza, è la cultura del Giappone.
Dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki l'imperatore Hirohito disse al suo popolo: «Spero dal profondo del cuore che le persone, tenendosi per mano, si trattino con compassione e superino questi momenti difficili».
Bene. Il Giappone ha superato quei lontani momenti difficili, si è ricostruito, rigenerato, ha fatto del lavoro, della ricerca, dello spirito di competizione, dell'ambizione costante, il veicolo del suo essere nuovo, diverso, nella continua ricerca dell'armonia.
Uscirà anche da questa nuova catastrofe e continuerà a vivere in quella terra, in quel pugno di isole che, con un immenso continente alle spalle, si affacciano nel vuoto dell'oceano, circondate dall'acqua del mare, estrema essenza di ciò che muta perennemente.
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