EXCALIBUR 73 - aprile 2013
in questo numero

Un uomo: Benedetto XVI

Bilancio impossibile di otto anni straordinari

di Angelo Marongiu
Sopra: un gesto dirompente che ha squassato le coscienze
Sotto: l'emerito Vescovo di Roma nella solitudine di Castel Gandolfo
Ero a Roma, il 13 marzo scorso, quando poco dopo le 19 le campane della città hanno cominciato a suonare.
«Lo hanno eletto», ho pensato.
I casi della vita: il 19 aprile 2005 ero in Libia e viaggiavo lungo la strada infinita che va da Tripoli a Gadamesh. Ci siamo fermati per una sosta e il proprietario del luogo di ristoro, sentendo che eravamo Italiani, ha sintonizzato la tv su un canale italiano. Era il momento dell'annuncio del nuovo Papa, Benedetto XVI. Ricordo che mi era sembrata una figura minuscola, con i suoi piccoli occhiali e il viso scarno, quasi indifeso.
E, in quest'ultima piovosa serata romana, dietro la curiosità di conoscere il nuovo Papa - e il nome che avrebbe scelto, nome, secondo me, più importante di qualunque discorso di insediamento - il mio pensiero è riandato a quel lontano giorno di aprile e a quella sensazione di fragilità che quel nuovo Papa mi aveva suscitato.
Un uomo, Benedetto XVI, non più un Papa.
Dietro le sue dimissioni si sono scatenate le più disparate ipotesi e illazioni e, naturalmente, le nostre solite infinite polemiche. Non stiamo qui a riportarle. È indubbiamente un gesto clamoroso, quasi unico nella storia dei successori di Pietro. Ma la verità è solo sua, di Joseph Aloisius Ratzinger.
Ognuno di noi, dei suoi quasi otto anni di pontificato, credente o no, ha suoi propri ricorsi, sue sensazioni: uniche perché personali.
Di quest'uomo, che io ho sempre ammirato per la sua intelligenza e per la sua mitezza, ho scolpite due date: 12 settembre 2006 e 17 gennaio 2008.

La prima data è quella della "lectio magistralis" al mondo scientifico all'Università di Ratisbona, città nella quale era stato ordinato sacerdote e aveva cominciato a insegnare. Un discorso che - per le polemiche che ha suscitato - ha segnato profondamente il suo pontificato, poiché gli ha fatto capire che il discorso di un Papa, anche quando parla di fede, viene sempre inteso come un discorso politico.
L'inizio della sua lectio fu di una dolcezza disarmante: «È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell'Università e una volta ancora poter tenere una lezione». In quelle parole "una volta ancora" io leggo il rimpianto di una vita desiderata e perduta.
A Ratisbona, Benedetto XVI rivendicò con forza le radici ebraiche, greche e cristiane della propria fede, spiegandone la profonda differenza rispetto al monoteismo islamico.
La sua esposizione conteneva una citazione (poi rivelatasi drammatica per la malafede con la quale la si è voluta interpretare) dell'imperatore Manuele il Paleologo. In uno scambio di pensieri che ebbe nell'inverno del 1391 presso Ankara con un dignitario persiano, l'imperatore gli disse: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Poi continua: «Dio non si compiace col sangue; non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo».
Qualcuno dei politici del mondo, quelli che si fanno pagare milioni di euro o di dollari per le loro conferenze, quelli che vengono premiati con il Nobel per loro opere in favore della pace, ha mai avuto questo coraggio?
Benedetto XVI a Ratisbona è ritornato nel luogo di combattimento intellettuale e pastorale della sua gioventù e la sua mitezza è diventata fuoco e il suo altissimo pensiero è diventato sottile come un coltello: noi siamo Ebrei, Greci e Cristiani e Maometto e il suo Dio sono cosa diversa da noi. Per poter dialogare con chi è diverso da noi, in un tempo - allora come ora - di violenza e di aggressione, dobbiamo avere sempre presente ciò che noi siamo: uomini e donne dotati di due fonti preziose, la fede e la ragione, cioè l'origine primigenia del sapere e dell'amore. Dobbiamo abbandonare il relativismo nocivo e infausto del tempo moderno e abbracciare l'idea che la fede, la ragione e l'amore, hanno un rapporto stretto, di analogia, con la verità.
Parole altissime, ineguagliate.
Eppure la becera banalizzazione delle sue parole avevano portato i giornali di quei giorni a parlare di "attacco all'Islam". Gli imbecilli non avevano capito che le parole di Benedetto XVI erano dirette soprattutto a noi: il Papa della ragione aveva un altro obiettivo ed era il mondo occidentale, contro il suo relativismo e il suo irenismo, affinché abbandonasse la deriva agnostica dell'indifferenza, la perdita della ragione che comprende anche la fede, lo smarrimento della nostra identità culturale e religiosa.
L'"umile lavoratore della vigna del Signore" incardinava la sua visione sulla forza del pensiero e delle parole e sul rafforzamento della fede e della Chiesa. La ricerca della verità, da perseguire con costanza e umiltà, cozza contro il relativismo moderno, che tende a rendere tutto più facile, perché tutto è uguale, mondo interiore ed esteriore, e non occorre fare scelte. Verità scomode, inascoltate.

L'altra data è quella del 17 gennaio 2008: la sua "lectio magistralis" da tenere al termine dell'inaugurazione dell'anno accademico all'Università La Sapienza di Roma. Discorso al quale rinunciò, umilmente, a causa del clima stupido e ostile che si era creato all'interno e all'esterno dell'Università. Doveva recarvisi scortato dalla polizia, con cordoni di protezione per tenere lontani i soliti gruppi di studenti democratici, chiamiamoli pure così, pronti a inveire e insultare.
Già dal 20 novembre 2007, quando il rettore invitò papa Benedetto XVI, si scatenò una violenta controversia sull'opportunità dell'invito. Un docente, Marcello Cini, preparò una lettera di protesta pubblicata dal quotidiano Il Manifesto. Seguì una lettera interna indirizzata al rettore, firmata inizialmente da 67 docenti e poi sottoscritta da altri 700 tra professori e scienziati, Italiani e non Italiani, lettera che divenne di pubblico dominio prima della cerimonia. La Santa Sede decise a questo punto di declinare l'invito.
I motivi del dissenso di questi cosiddetti intellettuali, dei professori che in teoria avrebbero avuto il compito di "aprire" le menti dei loro studenti? Un errato riferimento alla "lectio magistralis" di Ratisbona (che evidente non avevano compreso) e un altro riferimento (fuori contesto) a una citazione di Feyerabend su Galilei fatta alla Sapienza in un discorso del febbraio 1990 dall'allora cardinale Ratzinger. Questo, per loro, era sufficiente a tappare la bocca (ma soprattutto le loro menti) a ciò che il Papa avrebbe potuto dire.
Nel discorso mai tenuto, pubblicato poi dalla Santa Sede, il Papa rivendicava l'importanza della ragione nella ricerca fondamentale della vita di ogni uomo: la ricerca della verità. E più avanti, alla domanda se si potessero coniugare teologia e filosofia in rapporto al loro compito fondamentale, cioè quello di essere custodi della verità, egli affermava: «A questo punto neppure io posso offrire una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda».
Che lezione di libertà e di umiltà nei confronti della cosiddetta intellighenzia boriosa e spocchiosa, che ci ciba dei propri punti esclamativi e teme un qualunque punto interrogativo che incrini la melma delle loro certezze e possa costringerli a pensare.
Quindi da Ratzinger ancora una ricerca di dialogo che il mondo contemporaneo, in questo caso quello della nostra Italia, ha respinto.
Il giornalista Giuliano Ferrara propose a tutti gli intellettuali che si erano laureati alla Sapienza di restituire provocatoriamente la loro laurea, ma l'appello non ebbe seguito alcuno.
E ora quest'uomo ci ha lasciato. Certo, probabilmente continuerà a scrivere, come ha fatto fino al 2005, ma non so quanto le sue parole risulteranno interessanti per il mondo mediatico alla continua ricerca di apparenza più che di sostanza.
L'immagine di quella figura vestita ancora di bianco, con un cappellino in testa e un bastone in mano, a capo chino nei giardini di Castel Gandolfo, rimanda a una immensa solitudine, quella di un uomo incapace di essere in sintonia con il mondo, portatore di un messaggio affascinante di bellezza, ma troppo scomodo per essere compreso.
E ora, per favore, un po' di silenzio.
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