EXCALIBUR 78 - aprile 2014
in questo numero

L'inarrestabile declino del sistema scolastico italiano

Solo ombre nell'immediato futuro

di Franco Marcello
Sopra: "riformatori" ed "opinionisti" scolastici (Giovanni Gentile con Benito Mussolini, Letizia Moratti, Henry Brooks Adams, Antonio Gramsci e Marcello Veneziani)
Sotto: Matteo Renzi e gli "Asini calzati e vestiti" di Roberto Alonge
Il discorso di insediamento di Matteo Renzi a Palazzo Madama ha suscitato, per i temi trattati, reazioni diverse. Più d'uno è rimasto colpito dal passaggio nel quale il giovane primo ministro sottolineava il ruolo della scuola: «noi pensiamo che non ci sia politica alcuna che non parta dalla centralità della scuola. Mi piacerebbe che chi ha la presunzione di avere la verità in tasca avesse la possibilità di confrontarsi con le insegnanti delle scuole. Chi di noi, tutti i giorni ha incontrato cittadini, insegnanti, educatori e mamme sa perfettamente che c'è una bellissima e straordinaria richiesta che è duplice. Da un lato si chiede di restituire valore sociale all'insegnante, e questo non ha bisogno di alcuna riforma, ma di un cambio di forma mentis, non ha bisogno di denaro, commissioni di studio: c'è bisogno del rispetto che si deve a chi quotidianamente va nelle classi e assume su di sé il compito struggente e devastante di essere collaboratore della creazione di una libertà».
Sarà il tempo a sancire se alle parole seguiranno i fatti, vale però la pena ricordare che era dal 1923 che uno statista non esprimeva così chiaramente il suo pensiero sul ruolo dei docenti. Il 1923 era l'anno in cui fu varata la riforma voluta da Giovanni Gentile che rifondò la scuola intorno al «consenso pieno e fervido degli insegnanti». consenso che non poteva essere forzato in nessun modo, ma semplicemente richiesto ponendo alcune condizioni favorevoli, ma sopratutto «facendo appello a una più alta coscienza e risvegliando, attraverso la libertà, l'intimo desiderio della creazione spirituale».
Il filosofo di Castelvetrano affermava con lungimiranza che «la scuola non deve essere informativa ma formativa, l'insegnante è chiamato a suscitare e valorizzare le libere energie dell'allievo, non a modellare la sua intelligenza secondo uno schema esteriore».
Qualche anno fa, tra le pagine di "Libero" ho letto con interesse un articolo di Marcello Veneziani. In quell'occasione, era il 18 novembre del 2004 e Berlusconi per la seconda volta era a capo del governo, il percorso impervio del progetto di riforma dell'istruzione suggerì a Veneziani un duro intervento contro il mondo della scuola che avversava aspramente gli intendimenti del Ministro Moratti.
Tra le tante affermazioni spiccava per veemenza la seguente: «Da bocciare non è il ministro, ma i professori. Se la scuola italiana fa un po' schifo, la colpa principale spetta a loro: li pagano poco, è vero, ma molti di loro non meritano neanche quei tre soldi. I professori italiani sono i peggio considerati d'Europa ma anche i peggio preparati, i peggio selezionati e i più ideologizzati. Certo, è più facile cambiare un ministro che una milionata di docenti. Troppi professori sono figli della demagogia degli anni Settanta, delle infornate senza concorso, dei cortei e delle sessantottate, delle occupazioni e della demeritocrazia militante».
Da parte mia è d'obbligo una premessa: non intendo procedere a una difesa corporativa della categoria alla quale appartengo. I docenti italiani, pur non essendo in assoluto i peggio preparati, sono sicuramente i peggio selezionati e probabilmente tra i meno aggiornati. Non sono però i più ideologizzati, questo è un luogo comune diffuso all'esterno del mondo scolastico, senza un fondamento reale. Basterebbe riflettere sul fatto che la riforma Berlinguer non ha ricevuto sconti di alcun genere da parte dei docenti ed è forse stata la riforma recente più contestata dagli addetti ai lavori. L'immagine del docente con "La Repubblica" o peggio "L'Unità" sotto il braccio, che fa proselitismo tra gli alunni, è fantasia pura, roba da "caccia alle streghe": in più di trent'anni di scuola forse ne ho visti uno o due e non certo in tempi recenti. Occorre a mio parere riflettere su tre quesiti tra loro interconnessi:

- è ancora vero che è il docente il cardine su cui basare una reale rinascita della scuola italiana?
- perché gli insegnanti sono impreparati e perché sono così mal selezionati?
- quali sono, realisticamente, le prospettive future per la scuola italiana?

«Un insegnante non potrà mai sapere dove termina la sua influenza», soleva dire lo scrittore e storico statunitense Henry Brooks Adams (1838 - 1918), questo assioma non è certamente superato: il vero motore dell'apprendimento è e sarà sempre il buon insegnante.
Un interessante saggio di Roberto Alonge (docente di Storia del teatro rinascimentale), intitolato "Asini calzati e vestiti" (Utet, 2005), evidenzia come dal 1968 a oggi, per gli insegnanti della scuola e dell'università ci sono stati sempre e solo sanatorie e assunzioni in ruolo ope legis, cioè senza concorso, o con pseudoconcorsi, che hanno lentamente portato a una classe docente sempre meno motivata e sempre meno adeguata. Secondo Alonge «il disastro della scuola e dell'Università italiane è sotto gli occhi di tutti. Lo sfascio dell'una è strettamente legato allo sfascio dell'altra».
Detto ciò, è a mio parere evidente che non esiste un insieme di lavoratori virtuoso in sé, per questo motivo in tutti i frangenti della storia ogni "lotta di classe" si è rivelata ingiusta e infruttuosa. La percentuale di inetti, o di parassiti se si preferisce, è analoga all'interno di qualunque ordine professionale, la "gogna" per un'intera categoria, come vorrebbe Veneziani, non solo non trova alcuna giustificazione, ma rischia di complicare il problema. Non è l'ulteriore discredito e svilimento dei docenti che può permettere al sistema formativo nazionale di risalire la china.
Se si analizzano le ultime riforme del sistema scolastico, ci si rende inevitabilmente conto che lo smantellamento è partito dall'alto e nulla hanno potuto i docenti se non assistere increduli e disorientati.
Negli anni settanta, sotto la spinta della contestazione giovanile, si parlò a lungo di riforma della scuola secondaria di secondo grado. L'intenzione rimase tale, anche se molti osservatori sottolinearono come si sia comunque innescato un «cambiamento progressivo senza riforma», i cui aspetti maggiormente rilevanti, nati in quegli anni, sono lo sviluppo dell'istruzione tecnica e un impulso ulteriore verso una scuola accessibile a tutti. È degli anni settanta l'istituzione dei "decreti delegati", approvati nel 1974, che introducono nella vita della scuola un sistema rappresentativo delle diverse componenti: genitori, personale amministrativo, tecnico e ausiliario (i bidelli) e, solo nella scuola superiore, gli studenti.
Nasce la scuola elementare a tempo pieno (legge 820/71) come risposta ai bisogni sociali dell'utenza. La legge 517/77 (legge Falcucci) introduce il principio di integrazione, mediante l'assegnazione di insegnanti di sostegno alle classi che accolgono alunni portatori di handicap. Questa norma, inizialmente accolta con scetticismo, è sicuramente il provvedimento più significativo del dopoguerra nell'ambito dell'istruzione. In grado, ancor oggi, una volta tanto, di porre il nostro paese in una posizione di assoluta avanguardia culturale.
Gli anni ottanta e novanta sono quelli maggiormente problematici e l'opera di smantellamento della scuola pubblica riprende con disarmante continuità. In questi anni, si tenta di contrastare la cosiddetta "dispersione o evasione scolastica", ovvero l'insieme di comportamenti derivanti dall'ingiustificata fuga dei minorenni dalla scuola dell'obbligo e dal mancato conseguimento di adeguati traguardi di apprendimento, da parte degli studenti delle superiori.
Non mancano tuttavia alcune innovazioni didattiche interessati, come l'avvio dei Programmi Brocca, indirizzati ai Licei e in parte agli Istituti Tecnici, e il Progetto che riorganizza l'istruzione professionale.
Significativi invece i mutamenti della scuola elementare con i Programmi del 1985 e la legge del 1990, che ha come conseguenza l'introduzione di una pluralità di docenti per la stessa classe (i cosiddetti moduli). Le conseguenze di questo provvedimento, che ha inciso notevolmente sui bilanci dello Stato, sono molto controverse. A mio parere i moduli si sono rivelati un elemento di grande positività laddove il caso ha permesso di costruire equipe estremamente valide e in grado di compenetrare le rispettive competenze dei docenti. Quando ciò non è avvenuto gli effetti negativi si sono moltiplicati, a scapito del processo formativo. Tre insegnanti, pur individualmente preparati, che però non interagiscono o peggio litigano fra loro, sono quasi sempre peggio di uno solo, anche se quest'ultimo non può, evidentemente, possedere la stessa varietà di competenze.
I programmi delle scuole elementari del 1985 e gli orientamenti delle scuole materne del 1991 non derivano tanto da un processo politico, quanto da un'azione portata avanti negli anni dalla categoria dei docenti supportati dalla pedagogia accademica. Uno dei limiti principali è comunque la mancata apertura ai docenti di educazione fisica per le ore di attività motoria, disciplina che, in ritardo rispetto al resto d'Europa, entra finalmente a far parte del curricolo. L'eliminazione degli esami di riparazione nella scuola superiore, attuata nel 1995 durante il primo governo Berlusconi dal Ministro Francesco D'Onofrio, è un atto dalle conseguenze gravissime per la scuola, per la sua credibilità e per quella della classe docente, un cambiamento che ha fatto precipitare ulteriormente e drammaticamente gli standard formativi.
Nel 1996, con il primo governo Prodi, a capo del dicastero della Pubblica Istruzione viene posto l'ex rettore dell'Università di Siena Luigi Berlinguer, il quale si propone importanti obbiettivi: l'innalzamento dell'obbligo scolastico, la riforma dell'esame di maturità, l'autonomia scolastica e il riordino dei cicli.
Il provvedimento estende l'obbligo scolastico a 15 anni, e crea un secondo tipo di obbligo, quello alla formazione professionale, che dura fino ai 18 anni. Resta intatta la possibilità di frequentare la scuola materna, dai 3 ai 6 anni.
Viene istituito il ciclo primario che comprende tre bienni, cui seguirà un anno definito "di orientamento", una sorta di sintesi tra elementari e medie, con l'intento di dedicare una maggiore attenzione alla preparazione agli studi del successivo ciclo di istruzione. Il ciclo secondario dura sempre cinque anni, e si articola nelle solite quattro aree: umanistica, scientifica, tecnica, artistica, in più, con un impegno personale rilevante da parte del Ministro Berlinguer, quella musicale. Nel primo biennio aumentano leggermente gli insegnamenti comuni, in modo da permettere, se lo studente vuole, di passare da un indirizzo a un altro. Al termine dei 5 anni l'esame di Stato (l'ex esame di maturità), che da questo punto in poi sarà sempre meno essenziale. Le commissioni sono fortemente caratterizzate dalla componente interna, con il solo Presidente esterno, tutto in pratica è già deciso. Il voto finale è espresso in centesimi anziché in sessantesimi, forse perché utilizzare una diversa scala di valutazione può dare l'impressione di un cambiamento reale, in verità è un bluff. Entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, il ministro della Pubblica istruzione predispone un piano complessivo, di riqualificazione professionale e aggiornamento degli insegnanti. Le risorse economiche sono poche anche a causa degli immancabili tagli, dopo un primo anno di fermento, tutto finisce.
Siamo così alle elezioni politiche del 2001 che vengono vinte dalla coalizione di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi. Viene nominata Ministro per la Pubblica Istruzione Letizia Moratti, che presenta una proposta di riforma del sistema scolastico, in apparenza radicale. Suscita consensi e dissensi sui fronti opposti. Lo slogan è quello delle "tre i" informatica, inglese, impresa. La prima "i" non si sa chi dovrebbe portarla avanti dal momento che la maggior parte degli insegnanti, anche nel primo ciclo, ha una conoscenza tecnica del computer inferiore ai propri alunni. Sarebbe necessario educare i ragazzi a un utilizzo corretto dei principali programmi, di Internet e della rete e occorrerebbe prima di tutto aggiornare i docenti, ma come sempre mancano i fondi. La seconda "i" è una lodevole intenzione ma i piani di studio e la scansione oraria dell'insegnamento dell'Inglese andrebbero rivoluzionati. Non è una cosa impossibile in quanto la flessibilità oraria è stata acquisita con l'autonomia delle scuole, ma manca il coraggio da parte dei dirigenti Scolastici e il Ministero si guarda bene dal fornire indicazioni più concrete forse per paura che qualche istituto si inventi dei percorsi "troppo innovativi". La terza "i" (impresa) nessuno ha mai spiegato come realizzarla, gli stage con le aziende del territorio sono una realtà già esistente soprattutto nell'istruzione tecnica e nessuna risorsa supplementare viene messa in campo.
La privatizzazione della scuola trova con il Ministro Moratti una nuova energia propulsiva, scatenando la forte reazione del corpo docente e delle famiglie. Personalmente è una soluzione che non condivido, il rischio è un ulteriore progressivo abbandono della scuola pubblica che peserà non poco sulle famiglie con meno risorse economiche. Il talento individuale non è correlato con il reddito familiare, le opportunità devono essere offerte a tutti, solo così è possibile promuovere il merito. Antonio Gramsci (1891 - 1937), vissuto a cavallo tra la scuola riformata dalla legge Casati (regio D.L. 13/11/1859, n. 3725 del Regno di Sardegna), entrata in vigore nel 1860, e la scuola gentiliana, rilevò che «sono prevalentemente figli di operai o provengono dalle famiglie più povere, i ragazzi che al termine della quarta ginnasio, non riescono a conseguire la promozione. Non studiano abbastanza, come non studiano, in verità, neanche i figli dei borghesi. Ma quelli, in qualche modo si salvano sempre: i genitori li mandano a lezioni private, qualcosa imparano e un poco sanno parlare. Respirano pur involontariamente cultura, anche se non si impegnano».
Queste considerazioni trovano ancor oggi riscontro ma non nel ceto sociale: è la cultura personale, "la volontà di riscatto", l'attenzione che i genitori dedicano ai progressi scolastici dei propri figli, a fare la differenza.
Le elezioni del 2006 vengono vinte dalla coalizione guidata da Romano Prodi. Come Ministro dell'Istruzione viene scelto Giuseppe Fioroni che propone un'ulteriore revisione dell'esame di Stato. Apparentemente si va verso un "giro di vite" da molti invocato. Viene infatti decretata la non ammissione degli studenti con debiti formativi non saldati nel triennio. Si registra un ritorno alle commissioni miste (Commissari per metà interni e per metà esterni), ma sempre provenienti dall'ambito territoriale, per cui il Presidente o i Commissari esterni, sempre per motivi legati alle risorse finanziarie, sono della scuola accanto (!).
Tornando ai giorni nostri, quali responsabilità possono avere i docenti se chi ha governato in tutti questi anni, oltre a non aver perseguito la qualità dell'offerta formativa, ha trasformato deliberatamente e cinicamente la classe docente in un serbatoio di scontenti e di precari a vita, per poter poi utilizzare elettoralmente il loro malcontento?
Quali responsabilità possono avere gli insegnanti se le famiglie, anche a causa della scarsa considerazione di cui gode la classe docente, non sono disponibili in alcun modo a collaborare alla realizzazione del processo educativo e formativo dei loro figli?
E veniamo all'aspetto più importante del nostro ragionamento: quali sono, realisticamente, le prospettive future per la scuola italiana? Per non lasciarsi prendere dallo sconforto occorrerebbe una dose massiccia e immotivata di ottimismo. La realtà è purtroppo caratterizzata da un dato di fatto: la scuola italiana è aggrappata disperatamente all'attuale generazione di docenti, o se si preferisce a quel 50% di essi che vive la scuola con motivazione e senso di responsabilità.
Dopo di loro ci sarà un baratro dagli effetti devastanti, non esiste alcun ricambio! La qualità dei docenti si basa sulla virtù delle persone, il ruolo è delicato, a differenza di altre professionalità, è difficile pensare a un buon docente che non abbia requisiti morali e culturali al di sopra della media. Il reclutamento degli insegnanti dovrebbe dunque poter attingere dagli studenti più scrupolosi, preparati e disposti a mettersi in gioco continuamente, caratteristiche non proprio diffuse. Se le generazioni precedenti potevano in qualche modo essere attratte dall'insegnamento, perché mai dovrebbero esserlo gli studenti più meritevoli delle ultime generazioni?
Sul piano del prestigio e del riconoscimento sociale la funzione docente è oramai priva di autorevolezza e di appeal. Dal punto di vista economico la situazione è scoraggiante poiché, come ha sottolineato in modo un po' becero lo stesso Veneziani, l'insegnante della scuola italiana è tra i meno retribuiti d'Europa. Il risultato è che persino una potenziale latente vocazione viene autocensurata dai giovani più promettenti. Inoltre, non esiste a livello universitario un percorso formativo incentrato sulla docimologia e sul tirocinio guidato che riguardi tutte le aree di insegnamento. Il reclutamento dei ricercatori universitari si basa non sul merito ma su logiche baronali e nepotistiche dure a morire. I nostri giovani più preparati vanno all'estero a completare i loro studi, terminati i quali le aziende più competitive a livello internazionale se li contendono, non sarà facile farli rientrare.
Può sembrare una visione eccessivamente pessimistica, purtroppo è l'amara realtà, difficile da sovvertire.
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