EXCALIBUR 82 - novembre 2014
in questo numero

L'ombra di Mosca sulla tomba di Gramsci

Come il Comintern e Palmiro Togliatti manipolarono la vita e la morte di Gramsci

di Angelo Abis
Sopra: la copertina del libro di Luigi Nieddu
Sotto: Antonio Gramsci (Ales 1891 - Roma 1937)
Nella storia d'Italia è difficile trovare un mito, fondato su una mistificazione, così ben costruito come quello del pensatore comunista Antonio Gramsci. Ancora più intrigante è il fatto che tale mito fu creato, in maniera tanto intelligente quanto spregiudicata dal suo sodale nel comunismo filosovietico, Palmiro Togliatti, capo indiscusso del Pci e uomo di fiducia di Stalin, nonché abilissimo persecutore e carceriere "occulto", per oltre 11 anni, del suo compagno.
Togliatti iniziò a costruire il mito del pensatore sardo a Parigi, già dal 1938, allorché pubblicò una raccolta di saggi su Gramsci. In questi ultimi affermò che il pensatore sardo fece uscire dal carcere l'espressione che definiva Trotsky - l'oppositore di Stalin fatto assassinare in Messico nel 1940 - di cui Gramsci era estimatore, "la puttana del fascismo".
L'edificazione del mito proseguì nel 1947 con la pubblicazione delle "Lettere dal carcere", con molti tagli e omissioni dei riferimenti a personaggi del Pci, nonché con l'esclusione di tutte le lettere scritte a Mussolini, ovviamente per non incrinarne l'immagine di tiranno malvagio e sanguinario.
L'altra opera in 6 volumi, più o meno dello stesso periodo, è "Quaderni dal carcere". Su quest'ultima opera ci piace riportare il pensiero dello storico socialista Luigi Nieddu, grande studioso ed estimatore del suo conterraneo: «Gramsci è stato studiato più sulla base di ciò che altri hanno detto di lui, che sulla base di quanto egli ha realmente scritto. [...] lo stuolo dei gramsciani improvvisati è sempre riuscito a imporre un Gramsci molto spesso inventato».
Sta di fatto che sulle due opere citate, Togliatti edificò il mito dell'intellettuale comunista storico e filosofo di grande spessore.
Ma lasciamo la parola ancora a Nieddu: «Per qualche tempo Gramsci è stato presentato soprattutto come un autentico storico del risorgimento italiano, come il filosofo da contrapporre a Benedetto Croce, come il teorico dello stato moderno, come il modello dell'intellettuale impegnato nella vita sociale e politica che, oltre tutto ciò, era anche comunista. La verità su Gramsci è invece tutto l'opposto. Gramsci è stato un militante politico sempre impegnato anche sul piano culturale. La cultura era per lui un elemento indispensabile per evitare pericolose improvvisazioni nel campo politico in generale e nell'ambito del partito in particolare. [...] Gramsci, da comunista convinto, faceva tesoro dalla esperienza che gli derivava dalla Rivoluzione russa. [...] Lenin aveva a lungo predicato la rivoluzione, ne aveva spiegato le ragioni, ne aveva illustrato i vantaggi [...] e Gramsci era un leninista. Voleva essere il Lenin della rivoluzione italiana».
Tralasciando il Gramsci intellettuale, a noi preme considerare come il dramma di Gramsci non iniziò con l'arresto dello stesso, con la condanna a 20 anni e con i 7 trascorsi in carcere e al confino, tutte cose ovviamente attribuibili allo stato fascista, ma ben prima, a opera di chi poi fece di tutto e di più per far sì che il destino del politico comunista, reo di essere annoverato tra i trotskisti e gli oppositori di Stalin, seguisse un corso che gli impedì in tutti i modi di manifestare la sua dissidenza nei confronti dello stalinismo.
Per provarlo non c'è neppure bisogno di fare tanta dietrologia. È sufficiente leggere la lettera che Gramsci scrisse dal carcere alla cognata Tatiana il 27 febbraio del 1933: «Io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale, cioè da un collegio di uomini determinato, che si potrebbe nominalmente indicare con indirizzo e professione nella vita civile. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l'indicazione esterna e materiale, che ha compiuto l'atto legale di condanna. Devo dire che tra i "condannatori" c'è anche Julca (la moglie, n.d.r.), credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente, e c'è una serie di persone meno inconsce».
Gramsci si riferisce a una congiura del partito manovrato in tal senso da Togliatti, motivo per cui già dal 1926 aveva rotto ogni contatto col partito, a differenza degli altri dirigenti comunisti, come lui reclusi.
Intuisce anche che qualcosa non andava nell'atteggiamento della moglie Giulia: certamente ignorava che la moglie già prima del matrimonio faceva parte della Ghepeù (la polizia politica sovietica), ma ancor più era all'oscuro che la cognata Tatiana, una delle persone che maggiormente stimava e che apparentemente si prodigavano per lenirgli le sofferenze del carcere e per fargli riguadagnare la libertà, era un docile strumento dell'apparato che non faceva niente senza l'input dell'ambasciata russa a Roma e per di più passava la corrispondenza e riferiva sui colloqui che aveva col cognato a Pietro Sraffa, un facoltoso docente, ex collaboratore di "Ordine Nuovo", il giornale a suo tempo creato con i quattrini dei Russi proprio da Gramsci.
Sraffa era un comunista "coperto", direttamente in contatto col centro interno del Pci, ma anche col Comintern e con lo stesso Togliatti, al quale trasmetteva tutto quello che riusciva a sapere sul detenuto, nonché la sua corrispondenza, e che indirizzava la stessa Tatiana nell'opera di controllo del detenuto. La rottura con l'ex amico e compagno di lotte, persino nell'avventura pro Mussolini interventista, della quale Gramsci, con grande scandalo dei compagni, mai si pentì, ebbe inizio ai primi del mese di ottobre del 1926, allorché Togliatti comunicò ai comunisti italiani le misure prese da Stalin per neutralizzare i suoi oppositori: Trotsky, Zinoviev e Kamenev.
Gramsci non ci pensò due volte a esprimere il proprio disappunto per le azioni contro la minoranza bolscevica e le conseguenze negative che esse avrebbero avuto nel partito russo e nell'internazionale. Scrisse una lettera di sei fogli che inoltrò tramite corriere diplomatico dell'ambasciata russa il 14 ottobre, affinché venisse consegnata a Togliatti col compito di portarla a conoscenza del partito sovietico. Cosa che Togliatti si guardò bene dal fare, portandola a conoscenza, direttamente o indirettamente poco importa, dello stesso Stalin.
Il 18 ottobre Togliatti comunicò a Gramsci che la sua lettera era irricevibile. A suo volta il leader sardo replicò che le argomentazioni togliattiane gli avevano fatto «un'impressione penosissima».
Da allora, tutta una serie di circostanze avverse, ma non fortuite, colpirono Gramsci sì da determinarne l'arresto, non inevitabile, l'8 novembre. Il mandato di cattura gli arrivò il 14 gennaio del 1927 mentre si trovava al confino nell'isola di Ustica. Un secondo mandato di cattura datava le sue responsabilità a partire dal mese di febbraio del 1926. Le accuse lo indicavano come mandante di una serie di fatti delittuosi imputabili a lui in quanto uno dei massimi esponenti del partito comunista.
Gramsci respinse ogni addebito, convinto di poter dimostrare che nel periodo citato non faceva parte di alcun comitato direttivo del partito. Gli andò male. Il primo a confermare che, proprio in quel periodo, faceva parte del massimo organo comunista, fu un detenuto comunista coimputato: Orfeo Zamboni. La cosa strana fu che Zamboni mentre attestava l'accusa contro Gramsci, negava la stessa accusa nei confronti di Terracini.
In contemporanea la rivista del Pci "Lo Stato", edita a Parigi, pubblicò una serie di articoli dove si dava rilievo alla figura di Gramsci come massimo esponente del partito. Ma la mazzata decisiva arrivò a Gramsci qualche giorno prima del rinvio a giudizio. Da Mosca venne inviata al carcere di San Vittore una lettera, datata 29 febbraio 1928, a firma di Ruggiero Grieco che si rivolgeva a Gramsci come al capo del partito. Di qui il commento del giudice istruttore Macis: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che sicuramente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
Il resto è noto: 7 anni di carcere, trattato, secondo quanto affermato dai compagni di carcere che lo detestavano, come un privilegiato. Lo scatenamento di campagne antifasciste tutte le volte che il regime mostrava disponibilità verso un atto di clemenza. Infine nel 1934 la libertà condizionale e il ricovero in cliniche private ove, il 25 aprile 1937, lo colse la morte, 3 giorni dopo aver ricevuto la libertà completa, tant'è che in previsione di questa si era fatto prenotare una pensione a Santulussurgiu, ove intendeva ritirarsi.
Sino a qualche mese fa rimanevano in piedi del mito di Gramsci la fedeltà al comunismo e la morte avvenuta per emorragia celebrale. Poi nel mese di giugno l'ormai novantenne Luigi Nieddu, non pago di aver pubblicato due testi dissacranti sulla vita di Gramsci, uno "L'Altro Gramsci" (1989), l'altro "Antonio Gramsci - Storia e mito" (2004), ha dato alle stampe il volume "L'ombra di Mosca sulla tomba di Gramsci e il quaderno della Quisisana" (2014).
La prima bomba che Nieddu fa esplodere è: «Gramsci morto per emorragia celebrale? Falso!». La vulgata si basa su una relazione del 12 maggio 1937 di dodici pagine inviata da Tatiana a Pietro Sraffa, secondo Nieddu «quasi sicuramente concordata e trascritta da una o più minute, stese nell'Ambasciata sovietica».
Nieddu con dati di fatto e testimonianze inoppugnabili smonta tutta la narrazione di Tatiana. Rileva come l'atto di morte, stilato in data 28 aprile, non riportasse il fatto che il decesso era avvenuto nella clinica Quisisana. Quella denuncia di morte era irricevibile perché incompleta. Al cimitero di Roma non è reperibile l'autorizzazione al seppellimento e, ciò che più conta, neppure il prescritto certificato del medico necroscopo con la descrizione della salma che stava per essere infornata, con la doverosa indicazione della causa del decesso e la conseguente esclusione di ipotesi delittuose... Resta saldamente in piedi l'ipotesi di possibili responsabilità penali volutamente occultate anche con la sua cremazione. Gramsci non aveva predisposto la sua cremazione e non risultava cremato per esigenze igienico-sanitarie.
Nessuno aveva titolo legale per farlo cremare, neppure i familiari. Se la cosa è avvenuta illegalmente, evidentemente si volevano far sparire le prove di un delitto. C'è poi il mistero delle otto foto scattate sul cadavere di Gramsci, spedite immediatamente a Mosca. Di queste ne sono state rese pubbliche solo due, ampiamente manipolate, poiché "tagliano" le gambe, per il semplice motivo che quelle gambe erano vistosamente rovinate da una caduta, certamente provocata, nel vuoto.
A ciò Nieddu aggiunge che, dopo un convegno tenuto a Roma nel 2007 proprio sulle cause di morte di Gramsci, fra cui l'avvelenamento, pratica molto usata dai servizi segreti russi nei confronti degli oppositori di Stalin residenti all'estero, dalla casa-museo di Ghilarza sparirono alcuni reperti, fra cui le ciocche di capelli che avrebbero permesso di appurare o negare l'eventuale avvelenamento di Gramsci.
Di qui l'amara conclusione di Nieddu: «L'esposizione e l'improvvisa scomparsa di foto manipolate [...] e le ciocche dei capelli [...] giustificano il più che ragionevole dubbio che Gramsci sia stato finito col veleno predisposto dal rappresentante dell'Nkvd (servizio segreto russo, n.d.r.) dell'Ambasciata sovietica di Roma e dallo stesso fattogli somministrare, molto verosimilmente, dalla sua poliedrica "traduttrice" Tatiana per imperdonabili reati di opinione e per "lesa maestà" di Giuseppe Bessarione (nome italianizzato di Giuseppe Stalin, n.d.r.)».
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