EXCALIBUR 94 - ottobre 2016
in questo numero

Allori sulle carovaniere

Oltre i confini della nazione, alla ricerca di altri lidi

di Silvio De Murtas
La colonizzazione è anche un dovere verso sé stessi
«Navi cariche di soldati, marinai e specialisti levano l'àncora dai nostri porti, fra la trepidazione e la commozione di quanti capiscono l'importanza del momento storico, dirette ovunque vi sia un lembo di terra libera, isole abbandonate e deserte, plaghe inesplorate e tenebrose».
Vi è indubbiamente qualcosa di epico in quest'anelito di un popolo verso la grandezza e la luminosità dell'avvenire: è qualcosa di profondamente umano - e, se si vuole, coi difetti ìnsiti nella natura umana - che fa battere i cuori e ansare i petti di questi moderni argonauti: "Avanti, garibaldini del mare" (Henni, 1911), "Cavalieri da leggenda" (Ain-el-Uichim, 1922), "La grotta che vomita fuoco" (Sighin-Gebel Gariam, 1923), "La nuova Pastrengo" (Sidibu-Argub, 1923), "La galoppata degli Spahis" (Bir-el-Hasciadia, 1924), "Eroismo italico, fedeltà libica" (Bir Tarsin, 1925), "I pretoriani" (Got-el-Sass, 1927), "Aquilotti azzurri" (Bir Giafer, 1928), e così via... Asmara, Mogadiscio, Addis Abeba, Gondar, Lago Tana... Bagliori di fiamma e vampe di italico calore nel mezzo dello scontro cruento!
Molteplici sono state le cause che spinsero l'Italia sulla via della colonizzazione d'oltre mare. Esse van ricercate nel popolamento del Paese, non adeguato alle condizioni economiche di questo; nella povertà delle classi umili che cercavano ricovero all'estero, dando luogo su vasta scala al fenomeno dell'emigrazione; nel bisogno di crearsi quel prestigio internazionale che altri erano andati a forgiarsi oltremare; nell'atavica tendenza, infine, che spingeva gl'Italiani al di là dei loro angusti confini, alla ricerca di terre da coltivare e genti da civilizzare.
Molti fattori concorsero a fare dell'Italia un paese coloniale: fattori economici, demografici, politici, sociali, morali, che tuttavia escludevano - spesso - la tendenza della "penisola" a partecipare a una corsa all'oro, a intraprendere insensate imprese solo per spirito d'avventura, o semplicemente per imitare - per manìa di grandezza - le gesta altrui... La povertà del Paese, cui si è cennato, oltre che un ostacolo fu anche un aiuto ai seguaci delle colonie, sia perché si riuscì a persuadere molti nemici del colonialismo, annidati soprattutto in Parlamento e nelle congreghe politiche, come fosse più utile per l'Italia incanalare gli emigranti verso terre italiane, sia per superare una delle concause, ossia - oltre ai miseri salari che si pagavano in Patria - per contrastare, almeno in parte, l'ignoranza e purtroppo anche la quasi inesistenza di un sentimento nazionale.
Si è detto che il peggior nemico dello sviluppo coloniale italiano fu il Parlamento; proprio in quell'ambiente incompetente e corrotto si trovavano gl'intransigenti, i falsi campioni della morale, i paladini delle presunta eguaglianza sociale, i donchisciotteschi protettori del "nobile selvaggio". Per tutti costoro le colonie erano un furto, non esistevano popoli inferiori, gl'Italiani dovevano preoccuparsi piuttosto dei "barbari interni" (così erano graziosamente indicati i Sardi, i Siciliani, i Calabresi...) e costoro non si accorgevano che i veri barbari erano proprio essi stessi, incapaci di vedere al di là del proprio naso, di intuire il momento politico, ma obbedienti solo ai loro istinti di ipocrisia e di viltà.
Essi furono gli stessi che, dopo le valorose ma sfortunate imprese di Dogali e Adua, si mostravan compiaciuti - nella loro miserabile piccineria - della sciagura che si abbatteva sulla Patria; furono ancora quelli che compiangevano i "poveri Arabi", i "poveri Beduini", i "poveri Turchi", vittime - a loro detta - dei nostri sanguinari e feroci soldati e del nostro ridicolo imperialismo, mentre loro - i vili - non eran nemmeno degni di servire il più umile dei nostri ascari...
Ma l'Italia, gloriosa ereditiera di Roma, l'Italia come Nazione di eroi, di scienziati e di guerrieri, si imponeva egualmente a onta delle innumerevoli difficoltà che nel suo stesso seno si sviluppavano. Già attraverso Crispi l'Italia aveva ben compreso che la colonizzazione è anche un dovere che si compie verso sé stessi e verso la società; che essa, oltre che un modo con cui aumentare il proprio prestigio, è anche un fenomeno derivato dalla condizioni particolari dei tempi, così come già lo fu nel mondo antico, anche prima di Roma, sotto forma di espansionismo naturale. Ci si era già resi conto che la colonia è una valvola di sicurezza delle ambizioni di un popolo, che essa segue necessariamente - come seconda fase di un processo evolutivo - l'emigrazione, che essa è un indice di indiscutibile maturità del paese colonizzatore, a parte ogni considerazione economica e mercantilistica.
L'Italia, quindi, capì che era venuto il momento di formarsi all'arte della colonizzazione, che è frutto della scuola dell'esperienza e dell'osservazione. Il segreto stava e sta nell'accoppiare l'utile (ossia, anche un ricavo economico) al miglior trattamento verso l'indigeno, che non è mai un colpevole o un reo, ma un disgraziato (nel senso nobile) che bisogna aiutare e civilizzare nell'interesse superiore. Sono - è vero - sempre da biasimare le stragi e le carneficine non giustificate da difesa, ma dovute a crudeltà o avidità. È pure colpevole trascurare gl'indigeni, perché costoro - se son "selvaggi" - tali resteranno, e se son appena civilizzati saranno preda del comunismo.
E l'Italia, pur non avendo un'elevata esperienza recente, poté diventare una potenza colonizzatrice, giacché i suoi figli erano pur sempre i discendenti dei Latini, dei Romani, ovvero dei più grandi colonizzatori che il mondo abbia mai avuto. E l'Italia sentiva il prepotente richiamo dell'Africa, cedendo al quale - peraltro - migliaia di Italiani si erano già stabiliti nelle reggenze, vedendo riconosciuti (pure nelle colonie altrui) i propri meriti e le loro grandi possibilità, anche nelle opere gigantesche edificate col contributo del braccio e del sangue italiano.
Anche per questa via, l'Italia non si era scossa dal suo torpore solo per bisogno e per interesse, ma sapeva di avere dei diritti in Africa, magari solo diritti "umani" e quindi non ancora affermati da documenti e da trattati, ma non per questo meno validi.
E quello che l'Italia riuscì ad acquistare non fu una semplice "colonia", bensì qualcosa di più grande, qualcosa che era rimasta ignota al mondo dai tempi di Cesare e di Augusto: una "Provincia Romana".
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