EXCALIBUR 99 - luglio 2017
nello Speciale...

Il volto sanguinoso della guerra civile

Sopra: cartello bilingue che segnala la presenza di ribelli sulla Via Cividale di Udine
Sotto: Torino, autunno 1944 - cerimonia militare in Piazza Castello alla presenza del Col. Giovanni Cabras
Nell'autunno del 1943 il territorio italiano non occupato dagli Alleati era conteso da tre forze: in primo luogo i Tedeschi, severamente impegnati militarmente a tenere lontano gli Alleati dalle frontiere del Reich, vi erano poi quanti si riconoscevano nella Repubblica Sociale Italiana che aspiravano a restituire dignità alla nazione italiana umiliata dall'armistizio, e infine il composito mondo antifascista che nella sua parte più radicale mirava a porre le basi di uno stato marxista da realizzare con la vittoria anglo-americana. Per la fazione comunista e azionista era prioritario abbattere le ancor fragili istituzioni della Repubblica Sociale e quel che restava dell'apparato preesistente fortemente indebolito da tre anni di guerra, per cui si rivelò difficile per lo stato fascista repubblicano affermarsi, contenere l'invadenza tedesca e mettere in campo una incisiva attività legislativa. Si cercò comunque di farlo, nonostante il terribile stillicidio di morti, sia civili che militari, caduti per mano gappista secondo la pratica vigliacca del "mordi e fuggi": una rivoltellata alle spalle e poi via! Al terrorismo urbano e rurale si rispondeva con rastrellamenti e fucilazioni, che servivano soltanto a ingigantire l'odio fratricida.
Tralasciando i "sacri testi" che professano la vulgata ufficiale, grazie alle pubblicazioni che hanno visto la luce negli ultimi decenni è possibile fare maggiore chiarezza su quel periodo. Fra queste merita considerazione "Il mito della Resistenza", un approfondito studio edito nel 1992 da Romolo Gobbi, docente dell'Università di Torino, in cui si sostiene la tesi che «nell'Italia del secondo dopoguerra il bisogno di ricostruire un'identità nazionale, dopo il ventennio fascista, spinse storici e politici a confezionare un mito incredibile che assolvesse gli Italiani dal senso di colpa per essere stati in grande maggioranza fascisti».
Questa valutazione porta l'autore a ridimensionare il fenomeno resistenziale e ripercorrerne tutti gli aspetti approfondendo criticamente la presunta "resistenza operaia", la quale era stata ampiamente condizionata dalle esigenze della produzione bellica di cui i Tedeschi avevano il controllo e che consentiva di influire sui rapporti con i vertici delle imprese, in particolar modo la Fiat, e con le maestranze per assicurare la pace sul posto di lavoro. Il giudizio finale cui perviene Gobbi rivela il volto ambiguo di una politica consociativa vocata nel dopoguerra all'esercizio funzionale del potere in nome dell'antifascismo e della Resistenza.
Per quel che riguarda la Repubblica Sociale, occorre aggiungere che riuscì a dotarsi di un ragguardevole esercito attraverso i bandi di chiamata alle armi che però finirono con l'alimentare le diserzioni, senza che l'aspirazione mussoliniana di riportare gli Italiani al combattimento trovasse adeguato successo.
Nel 1944 l'attività delle bande partigiane si accrebbe sensibilmente grazie all'appoggio fornito dalle missioni militari alleate e ai frequenti lanci di armi, ma a provocare il crollo della Rsi fu lo sfondamento della Linea Gotica e le trattative di resa fra il Servizio segreto statunitense e il generale Wolff, plenipotenziario tedesco in Italia. Le autorità civili e militari italiane si trovarono quindi impreparate a fronteggiare l'insurrezione generale partigiana, come dimostra ampiamente il fatto che le rilevanti forze fasciste radunate a Milano in vista della difesa del "Ridotto Alpino Repubblicano" non raggiunsero mai la Valtellina e che altri reparti che avrebbero potuto validamente controllare il territorio deposero le armi dopo una formale resistenza per poi venire barbaramente uccisi.
In quei difficili frangenti mancò l'azione di comando, che esercitata con la necessaria determinazione avrebbe sottratto tante vite a un tragico destino che sembrava segnato, evitando forse la morte a Dongo di tanti gerarchi e dello stesso Mussolini. Quale fosse il modo migliore per evitare un bagno di sangue lo evidenzia l'operato del colonnello Giovanni Cabras, comandante della Gnr della provincia di Torino, il quale seppe prendere i provvedimenti opportuni.
Conoscendo il giorno dell'insurrezione e l'intenzione di Moscatelli di confluire con tutte le sue formazioni su Torino, ritirò per tempo i presìdi più isolati radunando nel capoluogo tutte le forze disponibili. Il 25 aprile Torino risultava pertanto presidiata da circa 30 mila uomini fra Tedeschi e fascisti e particolarmente coese e ben addestrate erano le forze della Rsi, le quali comprendevano i seguenti reparti: un battaglione territoriale per i servizi di sicurezza, un battaglione O.P. del comando presidiario di Torino, 5 compagnie O.P. affluite da altre zone, il Gruppo corazzato "Leonessa", i battaglioni "Fulmine" e "Sagittario" della Decima MAS, 3 battaglioni di paracadutisti ("Nembo", "Folgore" e "Azzurro"), un Gruppo d'Artiglieria, un battaglione misto della Caserma Valdocco e la Brigata Nera "Ather Capelli".
Quanto ai Tedeschi, schieravano la 5ª Alpenjager e la 34ª Panzer. La disponibilità di artiglieria e mezzi corazzati consentì al colonnello sardo di trattare con i partigiani da posizione di forza e quando gli venne richiesta la resa minacciò di far aprire il fuoco su Torino qualora le sue truppe fossero state attaccate. I partigiani si guardarono bene dal farlo e a partire dal 27 aprile le forze della Rsi lasciarono indisturbate la città con l'intenzione di raggiungere la Valtellina per fare quadrato intorno al Duce. Tra il 27 e il 28 una interminabile colonna motorizzata scortata da mezzi corazzati prese in direzione della Lombardia. A essa si erano aggregate autorità civili e militari e molti familiari di fascisti repubblicani rassicurati dall'efficienza di questo complesso militare, che disponendo di ingenti quantitativi di viveri, munizioni e carburante era in grado di operare in modo autonomo per oltre due mesi.
Raggiunta Cigliano, in provincia di Vercelli, si venne a sapere che Mussolini era stato catturato e che il governo della Rsi aveva cessato di esistere. Essendo ormai inutile proseguire per la Valtellina, Cabras decise di attestarsi a difesa nella zona di Strambino Romano, a 9 km da Ivrea, in attesa dell'arrivo degli Americani. Per quattro giorni i partigiani chiesero inutilmente la resa e quando il 3 maggio giunsero sul posto gli Alleati venne concordato che le truppe si sarebbero arrese il 5 successivo con l'onore delle armi. Il giorno stabilito i fascisti si diressero su Ivrea dove depositarono le armi nello Stabilimento Chatillon e ventiquattrore dopo furono trasferiti a Parabiago e da qui destinati ai campi di concentramento di Piacenza, Tombolo e Coltano. La fermezza del colonnello Cabras aveva permesso ai suoi uomini di sfuggire alla vendetta partigiana che nel solo Piemonte causò oltre 4 mila morti.
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