EXCALIBUR 108 - luglio 2019
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Antonio Pigliaru

Sopra: Antonio Pigliaru
Sotto: Sentenza del tribunale militare della Sardegna contro Pinna, Pirro e Pigliaru
Pigliaru nasce a Orune nel 1922, ha una infanzia non felice, è orfano di padre morto suicida. Non aveva conseguito ancora la licenza liceale che in via eccezionale fu ammesso a partecipare ai littoriali della cultura e dell'arte che si tennero a Bologna nel 1940. Così racconta il suo amico e camerata di quei tempi, l'avvocato sassarese Giuseppe Melis Bassu: «Non ascoltai Antonio (era relatore sul tema 'Razza e costume nella formazione della coscienza fascista') perché a mia volta impegnato nel convegno di critica musicale, ma ricordo che la sera, in albergo, lo incontrai entusiasta della spregiudicatezza e quasi libertà con cui la discussione s'era portata avanti. Fu per esempio in quei giorni che sentii parlare per la prima volta di psicoanalisi e di valori ebraici nella musica».
Pigliaru prosegue la sua attività di "fascista" collaborando con la rivista del G.U.F. sassarese "Intervento" e curando il periodico della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) "Giovinezza in Marcia". Nel novembre del '42 abbandona la collaborazione ad "Intervento" per solidarietà con Melis Bassu, il quale era stato estromesso dalla rivista per aver preteso di pubblicare un articolo col quale si denunziava che un certo gerarca rubava nei magazzini dell'assistenza.
Già qualche mese prima sia Pigliaru che Melis Bassu erano stati sostituiti nella redazione del periodico "Giovinezza in Marcia", per aver teorizzato una concezione "liberale" dell'educazione che era poco rispettosa delle direttive in materia.
Melis Bassu sostiene che nel 1943 «Pigliaru era già, certissimamente, fuori dal fascismo regime» e che «la caduta del regime, così immanente, fu un evento tragico, angosciante, ma già da lui collocato nelle logiche evenienze della storia». Sarà... sta di fatto, però, che nel marzo del '44 Pigliaru fu arrestato con l'imputazione di aver costituito a Sassari un "Comitato regionale fascista".
Subì il primo processo antifascista dell'Italia "liberata".
Ebbe sei anni di carcere che scontò prima a Oristano, poi ad Alghero e all'Asinara, dove fu liberato nel 1947 in seguito all'amnistia di Togliatti. In carcere contrasse una grave malattia che, oltre a costringerlo in seguito a frequenti ricoveri ospedalieri, lo portò alla morte a soli 47 anni.
Pigliaru non ha lasciato da molto il carcere che coraggiosamente, anzi quasi per sfida, affronta il tema del fascismo commentando i diari di Bottai ("Rinascita Sarda" n. 8-10-12 del 1948-'49) e contemporaneamente il 25 aprile del 1949, sempre su "Rinascita Sarda" pubblica un articolo, "Commosso omaggio a Gentile", in cui afferma: «Quando echeggiavano i colpi di pistola che lo tolsero dal mondo dei vivi, non vi fu persona ben nota o uomo di cultura onesto, che non sentisse l'orrore di quella violenza. Violenza usata contro un uomo buono, che in quel periodo di tormento dilaniatore della sorte d'Italia badava ad aiutare gli Italiani: Italiani dell'una e dell'altra schiera [...]. Quest'uomo buono che non sentiva e forse non capiva la fazione, la violenza, il rancore».
Nel 1949 inizia anche un carteggio con Bottai, attraverso il quale i due personaggi pongono a fuoco le rispettive posizioni morali in ordine alla tragedia del fascismo. Ecco cosa scrive Pigliaru all'ex gerarca in una lettera datata 11 gennaio 1950: «Cospirando nel Sud a favore del Nord, e nonostante l'ultimo anno di fascismo storico mi avesse staccato quasi in toto dall'impegno di una fedeltà esteriore, in fondo avevo finito con l'assumere un atteggiamento nuovo [...]. Le basti questo: praticamente non mi riuscì difficile restare nel carcere, dal lato di Gentile senza rinunciare a Bottai, forse nel principio d'istinto, ma poi a poco a poco con perfetta giustificazione e con più sufficienti argomenti». Bottai risponde a stretto giro di posta il 19 gennaio: «A stringere la nostra amicizia, per ora epistolare, ha valso la certezza reciproca che nella diversità delle strade battute tra cose e uomini, sentivamo che ci aveva guidato il senso di un'unica via. Io non voglio, e non posso, accostarmi a Gentile: ma sono sicuro, per la dimestichezza ch'ebbi con lui fino alla metà di agosto (noto questa data del 1943), ch'egli si sia recato al Nord seguendo lo stesso ragionamento che ha portato me a combattere altrove [...]. Io so bene che al Nord giovani come Lei hanno, a loro volta, perseguito il compimento di una loro esperienza [...]. Tutte codeste esperienze, e quella del Maestro, e quella dei suddetti giovani, e ultima la mia, ebbero una validità morale che si tratta di liberare da ogni sovrastruttura polemica».
Prosegue intanto il suo lavoro di interprete del pensiero di Gentile e pubblica nel 1953 il saggio "In tema di lavoro e di cultura in Giovanni Gentile", nel 1954 "Studi sul pensiero di G. Gentile: a) fondazione morale della democrazia, b) il lavoro e il nuovo umanesimo", nel 1956 "L'esistenzialismo positivo di G. Gentile". Ecco cosa dice in merito Antonio Negri, il più importante studioso italiano del Filosofo, nel saggio "Giovanni Gentile, sviluppi e incidenze dell'attualismo" del 1975: «Come studioso dell'attualismo [...] avevo un debito verso Antonio Pigliaru, senza dubbio l'intellettuale sardo più stimolante dopo Gramsci. Ne sintetizzano dieci anni fa, la fisionomia di filosofo della politica, dicendo che egli traccia le linee di un personalismo comunitario fortemente suggestionato dalla nozione gentiliana dello Stato in interiore homine» e ancora, nel saggio "Pigliaru: la fondazione morale della democrazia" del 1985: «La società di tutti gli uomini. Certo viene spontaneo chiamare in causa la societas in interiore homine di Gentile [...]. Parlano di un personalismo comunitario di Pigliaru, ed è vero che un tale personalismo può diventare una realtà storica solo a patto che si proceda effettivamente a una 'fondazione morale della democrazia', come si è letto nel titolo di uno dei più problematici scritti gentiliani di Pigliaru».
Nel 1957 pubblica il saggio "Considerazioni sulle riviste dei G.U.F.", che Marina Addis Saba, autrice di due interessanti volumi, "Gioventù Italiana del Littorio" e "Dibattito sul Fascismo", nella prefazione al volume "Scritti sul Fascismo" di Pigliaru del 1983, così definisce: «Questo breve lavoro merita di essere esaminato per l'enorme quantità di intuizioni, di suggerimenti, di ipotesi che solo più tardi la storiografia ufficiale farà propri [...]. Il particolare merito di Pigliaru fu quello di indicare la maturità in cui essa (la generazione del Littorio) era pervenuta nel vivere attivamente e con mentalità critica entro il regime, nel tracciare l'ampiezza culturale in cui essa si era mossa, dalla politica all'arte, dalla letteratura alla musica, al teatro, al cinema».
Probabilmente sul finire degli anni '50 Pigliaru approda a un antifascismo estremo e radicale con una condanna non solo del regime, ma anche della dottrina. In occasione di un attentato dinamitardo contro una lapide ricordante il 25 luglio così scrive su "Sardegna Oggi": «Siamo giusti, cosa abbiamo fatto noi della "Generazione di Mussolini" per trasmettere ai nostri fratelli minori, a questi nostri primi figli, la lezione della nostra esperienza, il bilancio reale della nostra giovinezza? All'indomani eravamo stanchi e mortificati, carichi di vergogna e di superbie inutili, forse sbagliate, vittime e insieme carnefici di una devastazione che era stata profonda anche in noi [...]. L'accusa di incoerenza. Il sospetto del tradimento. La crisi dell'amicizia [...]. Siamo stati fascisti? Non chiedetemi (per darmi un alibi) a quale età. Erano gli anni che contavano; e se nel '42 eravamo sul punto di una scelta diversa, peggio per noi, peggio per me, se rinviando tutto al momento giusto, ho in effetti rinviato tutto al momento sbagliato, al momento della fine di tutto».
Negli anni '60 Pigliaru approda a una forma di socialismo cristiano pacifista. È contro la guerra: «La guerra, ogni guerra, è il portato di null'altro che una somma di infedeltà alle ragioni della vita», si batte per l'obiezione di coscienza a cui dà una rigorosa giustificazione etica e giuridica, vedi lo scritto "Promemoria sull'obiezione di coscienza".
È un infaticabile organizzatore, in quel di Sassari, di numerose attività culturali. Famosi i suoi "Dibattiti del sabato". In uno di questi, dedicato alla Cina Popolare coinvolge anche Ugo Spirito, il filosofo allievo di Gentile, il cui percorso politico e intellettuale ha molti tratti in comune con quello di Pigliaru.
Ma il suo impegno politico (ma non di partito, poiché Pigliaru non aderì mai a nessun partito) fu soprattutto in ordine ai problemi della Sardegna. Nel 1959 pubblica il suo libro più importante che lo farà conoscere non solo in Italia ma anche all'estero: "La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico" (Pigliaru era professore di "Dottrina dello Stato" all'Università di Sassari). Con questo libro, Pigliaru pone in termini umani la questione sarda e, per dirla con Manlio Brigaglia, «faceva della questione sarda il problema dei rapporti tra la comunità isolana e lo Stato. Uno Stato che, diceva Pigliaru, non ha titolo di essere Stato se non è capace di farsi riconoscere anche dalla più diseredata e marginale delle sue comunità. Lo Stato è assente in Barbagia, dice Pigliaru, assente 'nel senso di Stato come libertà, come strumento o ipotesi di liberazione, come strumento o ipotesi di giustizia reale'. Può essere facile sottolineare, come ha fatto Domenico Corradini, che questo Stato così invocato assomiglia molto ancora allo Stato Etico di Gentile».
Alla fine degli anni sessanta i grandi temi che avevano entusiasmato Pigliaru, l'unità delle forze autonomiste laiche, cattoliche e di sinistra, il piano di rinascita, il ruolo centrale dell'intellettuale nello sviluppo, dell'autocoscienza del popolo sardo, il riformismo scolastico, lo stesso antifascismo come pedagogia alla democrazia e alla tolleranza, entrano profondamente in crisi.
A partire dal 1968 bussa alle porte la generazione degli "anni facili" cresciuta nei miti del benessere, del progressismo e dell'antifascismo. Ma questa generazione, così come a suo tempo quella degli "anni difficili" di Pigliaru, considera "mistificatorio" il regime in rapporto ai valori a cui si richiama: mistificazione è questa democrazia e questo Stato, sovrastrutture manovrate da ristretti gruppi capitalisti nazionali e multinazionali. Esse vanno rovesciate con la violenza rivoluzionaria (il vero socialismo), vanno abbattuti i servi di tali sovrastrutture: carabinieri, magistrati, professori (i veri fascisti). Questa enorme discrasia fra ideali che la generazione del '68 vuole portare avanti e il regime in cui essa vive concretamente produrrà infine quella triste stagione del terrorismo, delle brigate rosse, delle centinaia di morti ammazzati, dell'annichilimento di un'intera generazione nel fenomeno della droga.
Come agì Pigliaru di fronte al '68? Ce lo dice un suo allievo "sessantottino", Guido Melis: «In ogni caso l'impatto tra un intellettuale tanto intimamente legato al dibattito politico-culturale degli anni precedenti come era Pigliaru e la cultura del '68 fu aggravato dalla coincidenza con le trasformazioni della politica culturale dei secondi anni '60 [...]. In un certo senso, rifiutando di cavalcare la tigre della contestazione Pigliaru tendeva a impedire una rottura [...], a riaffermare una continuità che valesse a impedire l'incolumità generazionale che andava ormai profilandosi».
Morì il 27 marzo del 1969, durante una dialisi. Nel suo studio «gli scaffali colmi di libri, il manifesto del 'potere agli studenti', un piccolo ritratto di Giovanni Gentile, il Crocifisso».
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