EXCALIBUR 120 - ottobre 2020
nello Speciale...

Parte II

la lontana Bergamo
La lontana Bergamo
Per te quelle remore e quei blocchi almeno una volta erano quasi venuti meno tanto tempo prima, quel pomeriggio che ci eravamo salutati sotto casa mentre io lasciavo Cagliari e la famiglia e partivo per sempre per Bergamo. E, salutandomi mentre io ero già salito in macchina, continuavi ad accarezzarmi in silenzio la mano.
Anche per me, molti anni più tardi, erano venuti un po' meno quei blocchi. Nella tua camera mortuaria, quando ti avevo reso quelle carezze alla mano. Ma le carezze alla mano, alla mano del figlio che parte o alla mano del babbo morto, non sono come le cose che si dicono o che si scrivono. Sono agìti, acting out, come si dice in psicologia. Sono soltanto sentimenti, desideri o impulsi espressi attraverso l'azione invece che con il linguaggio. Anche se quello non è poco, se rapportato al silenzio.
Le parole - anche se solo scritte, perché ormai dopo trentacinque anni dalla tua morte solo quelle scritte sono possibili - le parole sì che esprimono, con chiarezza, in piena coscienza, i sentimenti.
E forse riesco a scriverle solo ora, perché ora sono arrivato al termine di un mio lungo percorso in cui ho cercato tante cose che non trovavo e insieme a quelle cose un po' anche di te. A trentacinque anni dal babbu mortu.
Per anni avrei voluto dire tante cose e poi tante ma - come diceva il Pascoli degli anni del liceo - piena era la bocca di terra.
E ora che quella bocca potrebbe liberarsi non è più il momento. Non lo è più perché per parlare è necessario avere qualcuno che ascolti e, quello che ascolti, da trentacinque anni non c'è più.
Ma se non posso più pensare di avere il mio babbo davanti a me, che mi senta, mi ascolti, mi parli, posso avere almeno il desiderio di parlare a quello che del mio babbo è rimasto dentro di me.
L'ultima occasione, te vivo, l'avevo avuta durante un tuo viaggio a Bergamo, forse l'ultimo. Eri seduto su una poltrona di casa mia e mi guardavi; sembrava proprio che stessi aspettando che ti dicessi quel qualcosa che non ci si diceva più da tanto tempo, forse da quelle domeniche pomeriggio. O che venisse a te di dirle, quelle cose. Ma neanche quella volta ci riuscimmo: ti guardai anch'io per un po' e poi, a poco a poco, ripresi a fare quello che stavo facendo, la bocca ancora piena di terra, a far finta di niente.
Forse ora riesco a scriverne un po', di quelle cose, proprio perché, al termine di quel lungo percorso, mi sono accorto di aver tanto di te dentro, dopo che di quei pomeriggi della domenica era rimasto solo il rimpianto.
Ho incominciato ad accorgermene quando sempre più spesso trovavo nel mio modo di pensare e di fare cose, modi che un tempo erano stati anche tuoi. Il tuo brontolare soprattutto, il tuo trovar sempre qualcosa che non andava nella società intorno a noi (e per società intorno a noi intendo tutto, dal pianerottolo del nostro condominio all'Oceano Pacifico): il governo; il parlamento che si prendevano a botte; gli operai che venivano a fare qualche lavoro a casa e combinavano sempre qualche pasticcio; i comunisti - tutti, da quelli russi a quelli di Roma; gli impiegati della Regione che prendevano stipendi favolosi e facevano solo finta di lavorare; papa Giovanni che andava troppo d'accordo con i comunisti; e il mezzadro che rubava nei conti; gli Americani che stavano a guardare mentre i Russi avevano mandato in orbita la cagnetta Laika; l'ospedale che non funzionava e apriva ai parenti solo a ore impossibili.
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