EXCALIBUR 125 - febbraio 2021
in questo numero

Cina e Wto: la fine delle illusioni

Un impero granitico che non si smuove dalle sue certezze

di Angelo Marongiu
dicembre 2001: la Cina entra nel Wto
Sopra: dicembre 2001: la Cina entra nel Wto
Sotto: Cina e religione: una convivenza sempre più difficile
Cina e religione: una convivenza sempre più difficile
Alla fine del 2021 ricorre il ventennale dell'entrata della Cina nel Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio).
È stato un percorso lungo circa 15 anni, durante i quali la Cina, per soddisfare i requisiti di accesso all'organizzazione, ha agito su tre principali filoni della sua economia:
- per la determinazione dei prezzi dei beni è passata da un sistema centralizzato a un sistema basato sulle leggi economiche;
- per la proprietà privata ha accettato una certa liberalizzazione, seppure graduale e comunque mantenendo lo Stato in posizione dominante come guida del processo;
- adozione di una graduale riforma degli investimenti esteri, prima praticamente assenti o irrilevanti nello scenario economico del paese.
Fu l'allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a convincere il Congresso americano che l'ingresso della Cina nel Wto avrebbe portato quella grande potenza a uniformarsi in maniera progressiva alle regole dell'economia liberale. «È una vittoria su tutti i fronti», affermò Clinton.
Erano parole piene di speranza che sottintendevano in maniera velata, ma comunque chiara, la certezza di una evoluzione anche politica della Cina verso gli standard democratici occidentali.
I termini dell'accordo, dalla graduale riduzione dei diritti doganali, in particolare nell'agricoltura, all'eliminazione dei sussidi dello Stato alle esportazioni, fino alla possibilità di un maggior accesso straniero alle banche, assicurazioni e telecomunicazioni, sembrava aprire le frontiere a un immenso mercato con vantaggi per tutti.
Si levarono comunque voci di dissenso dal mondo occidentale, soprattutto perché l'accordo non prevedeva alcuna misura a difesa dei diritti umani, dello stato di diritto in generale e delle condizioni di lavoro. Le proteste, anche in ambito del Parlamento Europeo, non furono tenute in gran conto, in nome di una fantomatica prospettiva di avvio graduale della Repubblica Popolare Cinese verso orizzonti di democrazia.
Era una cambiale in bianco: vantaggi immediati per la Cina in cambio di un possibile sviluppo democratico, senza peraltro alcun monitoraggio sul rispetto dei vincoli e degli impegni in uniformità a quanto previsto per gli altri paesi aderenti al Wto.
Spostiamoci ora ai nostri giorni, al 25 gennaio a Davos, al "World Economic Forum", il più importante vertice annuale nel quale si confrontano i princìpi economici che guidano le nazioni più importanti del mondo.
Il presidente cinese Xi Jinping ha esordito nel suo intervento criticando il neo Presidente americano Joe Biden e la road-map che intendeva seguire nei confronti del regime cinese.
La critica più feroce ha riguardato il modello politico-istituzionale americano e la presunzione tutta occidentale della superiorità del modello dello stato di diritto: «Non esistono al mondo due paesi uguali e nessun modello è superiore, perché tutti riflettono la cultura e la storia di ciascuna nazione».
Un preciso schiaffo alla pretesa di democratizzazione della Cina con l'economia a far da grimaldello e alle speranze di quel lontano 2001. E un richiamo ancora più esplicito, se necessario, alla supremazia del potere del Partito Comunista cinese che incardina in sé il bene supremo dello Stato, al quale sono subordinati i diritti dei cittadini.
Non certo "Rule of law", in virtù della quale lo Stato si limita a riconoscere che ogni uomo è titolare dei propri diritti fondamentali, ma "Rule by law", nella quale i diritti dell'individuo discendono dallo Stato, non certo sottomesso alla legge.
E allora la repressione dei fremiti democratici a Hong Kong - che non dimentichiamo rivendicano il rispetto di impegni presi dalla Cina e non rispettati - e le continue minacce di Pechino a Taiwan («C'è solo una Cina al mondo e Taiwan è parte inalienabile del territorio cinese») dovrebbero far aprire gli occhi a coloro che ancora si illudono di una possibile convivenza paritaria con la Cina.
Il mix tra filosofia confuciana e totalitarismo marxista ha saputo forgiare un sistema politico determinato e granitico che, col passare degli anni, si è mostrato tetragono ai cambiamenti e non è mai stato messo in discussione, a differenza dei penosi e confusi balbettii delle democrazie occidentali, impegnate a una smisurata proliferazione di "diritti" a fronte di una indifferenza nel rispetto dei "doveri".
La "fine della storia" teorizzata da Francis Fukuyama si rivela sempre di più una sciagurata utopia, che a suo tempo (e per certi versi ancora adesso) illude il mondo liberal sulla possibile instaurazione di una grandiosa democrazia universale.
L'elezione di Joe Biden è stata salutata come un ulteriore passo verso questo splendido futuro, con un nuovo presidente capace, in luogo del vituperato e divisivo Trump, di dialogare armoniosamente con il mondo intero.
È proprio nel diritto internazionale che si concretizza lo scontro tra la libera sovranità di uno stato, un popolo, una società civile contro la visione e la politica degli Stati totalitari, che appiattiscono la libera espressione dell'individuo: ciò che sta accadendo e ancora accadrà in futuro renderà ancora più evidente che - a parte qualche malaugurata eccezione - la politica estera americana di un presidente repubblicano o democratico sono sostanzialmente simili.
Con buona pace dei nostri salotti e dei luoghi comuni, vecchi e stantii, e della ossessiva divisione dei presidenti americani in buoni e cattivi a seconda del loro partito di appartenenza.
In questo scenario prettamente economico e politico si innesta un'altra recente notizia, a dimostrazione della perdurante cecità nei confronti della dittatura cinese.
Nel "paradiso" dell'estremo oriente esiste un'organizzazione chiamata Sara, Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi, preposta al controllo di tutti i culti, che ha il compito di verificare la "subalternità", ma sarebbe più corretto dire la "sudditanza", di qualunque credo o espressione religiosa alle finalità dello Stato.
L'articolo 3 delle nuove disposizioni stabilisce che per poter esercitare funzioni religiose occorre «amare la madrepatria, sostenere la supremazia e la guida del Partito comunista cinese, sostenere il sistema socialista, rispettare la Costituzione, le leggi, i regolamenti e le regole, praticare i valori fondamentali del socialismo» e salto tutto il resto, che non è altro che la sottomissione dei valori della propria religione e la predicazione della fede ai voleri dello Stato.
È istituito un rigido database nel quale sono registrati tutti i rappresentanti religiosi, i loro atti, le loro manifestazioni ed esternazioni, nonché di qualunque individuo che in qualche modo esterni la sua professione di fede, in ossequio ai mai dimenticati principi di Orwell e del suo Ministero dell'Amore e Verità.
L'accordo sottoscritto tra la Santa Sede e la Cina - che proroga per altri due anni le intese sulla nomina dei vescovi cinesi - dà un tocco suggestivo di irrealtà al mondo irenico che Papa Bergoglio vagheggia: novello Obama al quale manca solo il premio Nobel per la Pace.
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