Excalibur verde

La politica estera italiana e il nuovo governo

Le chiavi di lettura della politica estera della Meloni tra dinamismo e tradizione

di Angelo Abis
<b>Giorgia Meloni</b> e <b>Xi Jinping</b>
Sopra: Giorgia Meloni e Xi Jinping
Sotto: il tricolore sfila per le vie di Roma
il tricolore sfila per le vie di Roma
Nel corso della campagna elettorale il mantra ricorrente contro la Meloni era che la sua, ormai data per scontata, nomina a presidente del Consiglio avrebbe suscitato un fuoco di sbarramento da parte delle democrazie europee e quelle oltre Atlantico, che non potevano certo gradire un leader italiano di estrema destra, anzi in odore di fascismo, e per giunta alleato con due forze politiche, Lega e Forza Italia, considerate molto vicine a Putin.
A conferma di tale tesi arrivarono anche alcune improvvide dichiarazioni di qualche esponente dell'Ue, della Francia e della Germania.
Non appena formato il nuovo governo, la Meloni si recò, il 3 novembre, a Bruxelles. Alle massime autorità dell'Ue fece subito capire che lei era presidente di un governo autorevole, che era lì per far presente che l'Italia non sarebbe stata più oggetto passivo delle decisioni Ue e che, pertanto, come soggetto attivo non avrebbe più accettato decisioni che prima non fossero state concordate con lei.
Le massime autorità europee, abituate ad aver a che fare con autorità italiane per lo più precarie e spesso incompetenti, pare abbiano recepito l'avviso.
Tant'è che il successivo e maldestro tentativo francese di isolarci in ambito europeo a seguito della nostra politica contro le Ong cadde completamente nel vuoto, anzi l'Ue ha posto all'ordine del giorno la richiesta italiana di regolamentare l'attività delle Ong e di affrontare in un contesto più ampio il problema dell'immigrazione nel Mediterraneo.
Tralasciando la partecipazione, il 6 novembre, alla conferenza sul clima organizzata dall'Onu a Sharm el-Sheikh in Egitto, dove pure non sono sfuggiti gli incontri a latere col Presidente egiziano al Sisi e quello israeliano Isaac Herzog, arriviamo al 15 novembre alla riunione del G20 a Bali, in Indonesia, dove la Meloni è stata subissata da richieste di incontri bilaterali che ha potuto soddisfare solo in parte.
Ha infatti incontrato il presidente degli Stati Uniti Biden, della Turchia Erdorgan, della Cina Xi Jinping, oltre ai capi di stato dell'India, del Canada e dell'Australia. Penso che gli interlocutori fossero interessati a conoscere non tanto la personalità della Meloni, unico capo di stato di sesso femminile in quella conferenza, quanto capire quale sarà, con un cambio di governo che si percepisce duraturo, la politica estera dell'Italia.
Questo perché, contrariamente a quello che pensiamo noi, cioè di vivere in uno dei paesi più disastrati del mondo, all' estero, invece, l'Italia è considerata una potenza di tutto rispetto, sia per il suo potenziale economico che quello militare, che poi sono le cose che più contano nei rapporti fra gli stati.
Sono convinto che i solerti funzionari cinesi, in vista dell'incontro di Xi Jinping con la Meloni, gli avranno consegnato la seguente tabella:
- popolazione cinese 1.400.000.000 - Italia 60.000.000;
- reddito pro capite: Cina: 8.500 dollari - Italia 35.511 dollari;
- prodotto interno lordo: Cina 17,73 migliaia di miliardi di dollari, Italia 2,1 migliaia di miliardi di dollari (1/23 della popolazione cinese);
- spese militari, Cina 209 miliardi di dollari - Italia 52 miliardi più 17 miliardi in nuove armi (dati per il 2022).
Inoltre l'Italia è il 4º paese al mondo per esportazioni di armi e precede la Cina che è il 5º.
L'Italia ha inoltre 24 missioni militari all'estero. L'esercito italiano è il 4º della Nato, dopo la Francia, ma prima della Germania.
Sono questi dati che fanno dell'Italia una potenza rispettabile: altro che l'autorevolezza di Draghi o di Mattarella. A scanso di equivoci diciamo che la Meloni non deve inventarsi niente di nuovo.
La politica estera italiana, che è supportata da un apparato diplomatico di prim'ordine, scorre su binari ben definiti da tre date storiche:
- 1949, l'Italia entra a far parte della Nato, uscendo così dallo status di potenza sconfitta per collocarsi alla pari delle ex nazioni vincitrici: Usa, Inghilterra e Francia;
- 1955, l'Italia viene ammessa all'Onu, superando le remore dell'Unione Sovietica;
- 1958, quando con i trattati di Roma dà vita alla Comunità Europea.
Di queste, solo la Nato è un'alleanza militare, a cui la Meloni, come tutti i suoi predecessori, ha confermato la propria fedeltà. Ma attenzione, l'appartenenza alla Nato non comporta una uguale adesione alla politica estera degli Usa. Tanto che l'Italia, quando ha voluto, ha mantenuto una notevole autonomia rispetto agli interessi americani: vedi la nostra politica verso il mondo arabo, sulla questione palestinese, sull'autonomia energetica, nei rapporti col terzo mondo, sui rapporti economici con il blocco comunista, ecc..
Ed è anche per questo motivo che l'Italia in Africa e nel Medio Oriente ha una leadership superiore a quella inglese e francese.
La Meloni ha ben presente tutti questi fattori e li inquadra su un suo assunto che ha sempre manifestato: l'influenza politica italiana nel mondo è di gran lunga inferiore rispetto alla sua influenza militare. Manca cioè alla classe dirigente attuale la stessa cognizione di che cosa significhi avere una politica di potenza e di come la si possa mettere in atto.
Per farla occorre avere coscienza del valore della propria nazione e della tutela degli interessi della stessa, del ruolo strategico e geopolitico che l'Italia ha nel Mediterraneo, nel vicino Oriente e nei Balcani.
Penso, invece, che il nostro presidente del consiglio di ciò sia pienamente consapevole.