EXCALIBUR 149 - gennaio 2023
in questo numero

Scienza e politica

L'approccio epistemologico come approccio etico

di Francesco Marcello
<b>Paul Ricœur</b> (1913-2005), ispirandosi a Karl Jaspers e Edmund Husserl, sviluppò la fenomenologia e l'ermeneutica creando un dialogo costante fra queste e le scienze umane e sociali
Sopra: Paul Ricœur (1913-2005), ispirandosi a
Karl Jaspers e Edmund Husserl, sviluppò la
fenomenologia e l'ermeneutica creando un
dialogo costante fra queste e le scienze umane e
sociali
Sotto: Karl Popper (1902-1994) pose al centro
dell'epistemologia la fondamentale asimmetria
tra verificazione e falsificazione di una teoria
scientifica
<b>Karl Popper</b> (1902-1994) pose al centro dell'epistemologia la fondamentale asimmetria tra verificazione e falsificazione di una teoria scientifica
L'epistemologia è lo studio filosofico della scienza o, più semplicemente, "la scienza che interroga sé stessa con i suoi strumenti".
Nasce da una serie di quesiti (epistemologici) semplici ma fondamentali: "cos'è la scienza?", "c'è un modo per distinguere la vera scienza dalle pseudoscienze?", "come può una teoria diventare scientifica?", "cosa è realmente il metodo scientifico?".
Ogni qual volta la realtà viene analizzata in modo critico, si ripresenta il solito dubbio: "siamo sicuri che quella che ci appare come tale e che noi definiamo comunemente scienza, in effetti lo sia?".
Nonostante l'apparente semplicità del quesito, siamo di fronte a un'obiezione forte rispetto alle tesi di chi, in ogni epoca, piuttosto che chiedersi filosoficamente cos'è la scienza, ha sempre ritenuto positivisticamente che quella che ci viene presentata sia l'unica scienza possibile. Aprioristicamente i suoi metodi sono stati replicati senza essere discussi, nella convinzione che siano unici e inoppugnabili, in grado di ergersi a criterio di validazione di ogni sapere, compreso quello filosofico.
In altre parole tra gli scienziati vi è chi ritiene che non può essere la filosofia a dover sancire cos'è la scienza, viceversa spetta alla scienza il compito di accertare i limiti e il campo d'azione della filosofia, se quest'ultima ambisce a interloquire con la scienza e ad acquisirne la medesima dignità.
La questione epistemologica, indispensabile filosoficamente, si è fatta più pressante dopo la seconda rivoluzione scientifica tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento. In quella fase la scienza non venne più intesa etimologicamente come "sapere", ma si rivelò qualcosa di meno certo.
Schopenhauer e Nietzsche sono stati inclusi da Paul Ricœur, insieme a Freud e ad altri pensatori, tra i "Maestri del sospetto" (Paul Ricœur, 1960), perché hanno messo in discussione tutte le convinzioni più radicate, non tanto contestandone l'attendibilità dal punto di vista epistemologico, ma andando alla ricerca di una definizione genealogica, oltre la coscienza umana. Schopenhauer ha percorso la via di una volontà impersonale, cosmica, mentre Nietzsche ha imboccato l'audace sentiero della volontà di potenza.
Molto prima di Schopenhauer e di Nietzsche, Niccolò Copernico, rivelando che la Terra non era per niente al centro dell'universo, ma altresì in una periferia estrema, aveva inferto un primo colpo all'egocentrismo umano.
I due filosofi tedeschi hanno poi "decentrato" l'uomo, non più soggetto principale della conoscenza e dell'azione, togliendogli impietosamente anche l'illusione dell'autocontrollo. Hanno compreso e sancito che l'uomo è stato spodestato dalla sua illusione egemonica. È un ceffone alle certezze rinascimentali e a quelle illuministiche.
La supremazia incondizionata dell'uomo sulla natura è smantellata dalla "morte di Dio" (aforisma 125 in "La gaia scienza - L'uomo folle", Friedrich Nietzsche, 1878)(1).
Si può certamente affermare che neppure oggi questa presa di coscienza filosofica, che ha rivelato all'uomo di non essere mai stato "padrone in casa propria" se non nella propria illusione narcisistica, sia entrata realmente nella coscienza degli uomini.
Il corso successivo del sapere scientifico si è sviluppato soprattutto nella biologia e nella psicologia attraverso un processo in qualche modo epigone della parabola positivista dell'Ottocento e conduce, almeno apparentemente, allo stesso esito: l'uomo ha semplicemente "cambiato padrone".
Non è più Dio a delineare il suo destino senza che egli possa opporvisi, ma una miscela di caso e di necessità o, come ipotizzava Jacques Monod, un compromesso fra casualità lineare e determinismo. All'improvviso la cartesiana "res extensa" occupa tutto lo spazio e porta via ogni residuo valore alla "res cogitans", alla coscienza, ridimensionata e confinata in un ruolo accessorio, ciò che in medicina è considerato un "sintomo collaterale", una semplice espressione superficiale del corpo e della natura o più propriamente del nostro cervello, come suggeriscono le moderne neuroscienze.
Charles Darwin e Sigmund Freud sono sicuramente tra coloro che, in periodi diversi, hanno maggiormente influenzato il sapere scientifico, soprattutto in relazione alla condizione umana.
Le loro tesi apparvero subito rivoluzionarie, anche se per quanto riguarda Darwin la vera rivoluzione concettuale non è tanto l'ipotesi che le specie viventi manifestino un'evoluzione nel tempo e, soprattutto, "derivino" l'una dall'altra. Questa supposizione fu infatti proposta nel XVIII secolo Da Georges-Louis Leclerc de Buffon e indagata all'inizio del XIX secolo da Jean-Baptiste de Lamarck. Il concetto realmente innovativo proposto da Darwin è la selezione naturale del più adatto o, come è stato chiarito successivamente, "dell'organismo casualmente più adatto". Freud, in un frammento divenuto celebre, definisce il paradigma evolutivo come il compimento di uno "sfratto" dell'uomo dal centro dell'universo, iniziato con Copernico e proseguito con Darwin.
Il secolo scorso è stato caratterizzato da una grande attività di approfondimento epistemologico che ha permesso di relativizzare e smitizzare le certezze derivanti dall'imperversare del positivismo.
Le teorie scientifiche, incluse quelle di Darwin, di Freud e dei neuroscienziati contemporanei, sono ritenute "semplicemente" modelli esplicativi dei diversi fenomeni, rettificabili e soprattutto falsificabili (Karl Popper, 1940).
È necessario tuttavia rilevare che questa forma di autocritica ai singoli prodotti della scienza non si è mai spinta, in campo specificamente epistemologico, a porre in discussione alcune delle acquisizioni più importanti che caratterizzano la scienza moderna.
In particolare non è mai stata affrontata un'azione critica verso il principio di oggettività, ovvero la propensione a definire i fenomeni, anche quelli umani, facendo riferimento solo a cause meccaniche e materiali, esterne dunque alla coscienza o allo "spirito".
Una domanda cruciale va posta: è verosimile ritenere che la conoscenza dell'uomo, nella complessità che la sua evoluzione culturale ha prodotto, possa ripercorrere le stesse strade della conoscenza di un oggetto, di un altro animale "non culturale", di una pianta, di un atomo o anche di tutto ciò che riguarda il pianeta, uomo escluso?
Potrebbe essere plausibile, al contrario, che nelle scienze che riguardano l'uomo, poiché lo studioso e colui che viene studiato coincidono, sia necessario un differente metodo d'indagine?
Molti tra i filosofi contemporanei della scienza, ma anche alcuni tra gli scienziati più avveduti, ritengono che le teorie scientifiche, basandosi su ipotesi piuttosto che su "assiomi", non vengono più interpretate come vere, ma come "verosimili".
Oggi si inizia a ragionare sul fatto che le teorie scientifiche rimangono tali finché "salvano i fenomeni", "fino a prova contraria", come amava dire Isaac Newton. Quando questa condizione non è più soddisfatta vanno corrette e infine sostituite.
Il sistema tolemaico, non senza traumi per il mondo religioso, è stato soppiantato da quello copernicano. Le teorie di Newton hanno subito lo "tsunami" della relatività di Albert Einstein, alla teoria della "doppia traccia neurale" di Alkon è subentrata la plasticità sinaptica di Kandel...
Fondamentale è che queste teorie "verosimili", in grado di salvare sempre i fenomeni, di spiegarli e prevederli, siano ben strutturate dal punto di vista logico-matematico, siano coerenti e sostenute da un solido impianto statistico. Un'obiezione proveniente dalla gente comune, ma anche da contesti culturalmente evoluti apparentemente lontani dalla scienza e dalle sue implicazioni filosofiche, potrebbe essere la seguente: filosoficamente ed epistemologicamente, quelle che comunemente chiamiamo scienze sono tali e sono le sole a essere tali? Se ci fidiamo della scienza senza porci alcuna domanda - perché non tutti posseggono gli strumenti per farsi delle domande - quella fiducia è un "atto di fede" alla stregua di una fede religiosa?
La prassi epistemologica ha in verità dei criteri in base ai quali si può affermare che ogni disciplina scientifica ha un proprio percorso che sfocia in uno statuto (epistemico) ossia, riflettendo su sé stessa, chiarisce in cosa consiste la propria scientificità. Ma se dovessimo generalizzare, in che cosa potrebbero riconoscere questa "scientificità" i non addetti ai lavori?
La domanda, né scontata né capziosa, è sempre quella iniziale: cosa intendiamo per "scienza"?
Alla luce, più che del sentire generalizzato, del parere degli esponenti della filosofia della scienza e delle stesse discipline scientifiche, la scienza potrebbe essere definita come "l'insieme dei presupposti che compongono l'approccio scientifico alla realtà".
Il periodo che stiamo attraversando ci ha offerto e ci offre continuamente motivi di riflessione su questi argomenti. Situazioni che si complicano quando chi governa deve prendere decisioni dalle quali dipende la salute e la sopravvivenza dei cittadini, come ad esempio la recente pandemia da covid-19.
Può un governatore pilotare scelte rispetto alle quali non ha competenza alcuna? E su quali basi? Ma soprattutto è concepibile che chi ha responsabilità specifiche nella guida di un paese (ma anche di opposizione costruttiva) possa affermare: «la scienza deve darci delle certezze».
Dare certezze è proprio quel che la scienza, per non contraddire sé stessa, non potrà mai fare.
La scienza medica nel caso specifico potrà dirci quale presidio è al momento il più idoneo a combattere efficacemente una patologia, ma è chiaro che tutto è inevitabilmente provvisorio perché tra un anno, forse anche tra un mese, molte cose potrebbero essere cambiate.
Le forme virali sono tra le più veloci ad adattarsi in differenti condizioni, i virus mutano continuamente ingaggiando una vera e propria "lotta per la sopravvivenza" con la ricerca medica. Uno Stato deve però decidere dove situarsi, non può cavalcare la superstizione o fare proprio l'anelito egoistico di libertà di chi è insensibile alle fragilità altrui.
Uno Stato ha il dovere di scegliere sempre la provvisorietà della Scienza come il miglior rimedio in quel momento disponibile.
È difficile accettare, ad esempio, il reintegro in servizio dei medici e degli operatori sanitari dichiaratamente "no vax". Non si tratta infatti di casi di obiezione di coscienza, come altre situazioni bioeticamente complesse quali l'interruzione volontaria della gravidanza o il fine vita, possono giustificare.
Si tratta di curare un malato nel modo migliore al momento disponibile. Un medico che rifiuta di curare i pazienti secondo i protocolli stabiliti dall'Oms è come un imprenditore che non attiva i necessari protocolli di sicurezza per i propri lavoratori o, anche se le conseguenze sono meno gravi, un docente che rifiuta il sistema nazionale di valutazione degli apprendimenti (invalsi).
Gli esempi potrebbero essere decine ma è chiaro che con la vita umana non ci si può permettere di giocare, né si può lucrare in termini di facile consenso, governare non ha molto a che fare con il consenso.
(1) «Dov'è andato Dio? [...] ve lo voglio dire! Noi lo abbiamo ucciso ? voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! [...] dell'odore della putrefazione non sentiamo ancora nulla? ? anche gli dei imputridiscono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso»
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