EXCALIBUR 15 - dic. 1999 / gen. 2000
in questo numero

La nascita del M.S.I.

26 dicembre 1946: nasce il Movimento Sociale Italiano, figlio negletto della Prima Repubblica

di Angelo Abis
Il dopoguerra e l'epurazione antifascista.
Nell'ultimo scorcio del 1946 l'Italia è ancora un paese occupato e lo sarà formalmente fino alla ratifica del trattato di pace firmato a Parigi nel 1947. Il che significa che sono pienamente in vigore le clausole dell'armistizio firmato da Badoglio nel 1943.
Quanto al fascismo gli alleati non scherzano: gli articoli 29 e 30 del suddetto armistizio recitano: «Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi [...] saranno immediatamente arrestati e consegnati alle forze delle Nazioni Unite [...]. Il Governo italiano si uniformerà a tutte le direttive che le Nazioni Unite potranno dare per l'abolizione delle istituzioni fasciste, il licenziamento e l'internamento del personale fascista».
Americani, Inglesi e Russi, a scanso di equivoci, nella conferenza tripartita tenutasi a Mosca nel novembre del 1943, hanno ribadito: 1) tutte le istituzioni e le organizzazioni create dal regime fascista debbono essere soppresse; 2) tutti gli elementi fascisti o filofascisti debbono essere rimossi dalla amministrazione e dalle istituzioni e organizzazioni di carattere pubblico.
A guerra praticamente conclusa, il 26 aprile del 1945, vengono emanati per conto del governo militare alleato due decreti luogotenenziali, il nº 149 e 195, con i quali si comminava il confino nei confronti di chi «avesse continuato in una condotta ispirata ai metodi o al malcostume del fascismo», mentre per la ricostituzione del partito fascista potevano essere erogati dai 10 ai 20 anni di carcere, dai 15 ai 30 anni la pena per i promotori, i dirigenti o i sovvenzionatori di bande armate il cui fine fosse quello di svolgere attività fascista.
Se questo era il quadro repressivo apprestato dagli alleati, ancora più pesante fu, per i fascisti o presunti tali, il bilancio del crollo della Repubblica di Salò e dei successivi provvedimenti legittimi o meno posti in essere dal Comitato di liberazione nazionale, nonché da parte di numerose bande partigiane non ancora disarmate dagli alleati.
Nella seconda metà del 1945 furono 40.000-50.000 le persone giustiziate, altre 50.000 detenute nelle carceri, migliaia i latitanti di cui un numero assai consistente con condanne a morte sulle spalle. Mentre 20.000 erano i dipendenti della pubblica amministrazione "epurati" cioè licenziati. Non si contavano poi gli "epurati" nelle fabbriche: nella sola Fiat, 1.500 dipendenti per lo più tecnici e capi operai erano stati cacciati via.

La "resistenza" fascista.
In questo contesto né la fine della R.S.I., né la morte di Mussolini, e neppure le stragi del 25 aprile e l'epurazione posero termine all'attività clandestina di gruppi fascisti. Questi gruppi, più o meno armati, erano abbastanza numerosi e forti a Milano e Roma, ma erano diffusi un po' in tutta Italia. La loro attività non era granché pericolosa: divulgazione di volantini, lanciati spesso con il sistema delle bombe carta, una miriade di giornaletti, in genere ciclostilati, diffusi fra i propri aderenti, i soliti attentati contro le sedi dei partiti di sinistra.
Le azioni più eclatanti, che suscitarono grande clamore in Italia e all'estero, furono il trafugamento della salma di Mussolini avvenuto il 22 aprile del '46 a opera di Domenico Leccisi, giovane sindacalista capo del "Partito Fascista Democratico", e l'incursione a Roma nella sede della Rai, da dove venne trasmesso il º maggio 1946 un proclama e l'inno "Giovinezza", a opera degli aderenti del gruppo "Credere" guidato da Pino Romualdi e dall'ex comandante della Brigata Nera di Parma Sergio Gavazza.
Tutti questi gruppi diedero vita nella prima metà del 1946 ai F.A.R. (Fasci d'Azione Rivoluzionaria) diretti da un direttivo chiamato "Il Senato", il cui massimo esponente era Pino Romualdi, ex Vice segretario del P.F.R., condannato a morte e latitante con il soprannome "Il Dottore". Molti degli esponenti dei F.A.R. figuravano "ufficialmente" come iscritti a "L'Uomo Qualunque".

Le trattative: il racconto di Pino Romualdi.
Probabilmente agli inizi del 1946, con la caduta del governo "resistenziale" di Parri e la costituzione del governo De Gasperi, con Togliatti ministro della giustizia, ebbero inizio le trattative tra gli esponenti dei F.A.R. e i rappresentanti di tutti i partiti politici, escluso solo il Partito d'Azione. Obiettivo dichiarato: una grande amnistia che permettesse ai fascisti di uscire dalle patrie galere o di non entrarvi.
Ma lasciamo al più noto esponente di questa trattativa, Pino Romualdi, il racconto dei fatti: «La storia degli incontri, dei colloqui, delle trattative, degli accordi fra "fascisti" e democratici è una storia vecchia pressappoco quanto la Repubblica. Anzi, più vecchia della Repubblica[...].
Stabilito che di noi avevano un po' paura e un po' bisogno tutti, e che noi a nostra volta avevamo bisogno di tutti, per uscire al più presto e nel modo migliore dalla disastrosa situazione in cui eravamo, il nostro discorso doveva dunque essere semplice. Si trattava di convincere le sinistre che noi avremmo impedito alle nostre forze di prestarsi a ogni manovra provocatoria nel caso che la Repubblica avesse prevalso e i monarchici avessero tentato di armare nostre forze per una reazione in extremis. Ai monarchici, invece, ci bastava assicurare il nostro appoggio elettorale [...] e la nostra partecipazione ad azioni armate nel caso che, vincendo la monarchia, i comunisti avessero tentato di rovesciare il risultato con la forza [...]. I contatti con i democristiani mi furono facilitati in particolare dall'amico Sisto Favre [...]. Ai colloqui più importanti, quattro o cinque, parteciparono "ufficialmente" due deputati democristiani. Precisamente il Prof. Caronia e l'On. Proia che [...] aggiungevano di poter impegnare, con la loro, anche la parola dello stesso De Gasperi.
Questi colloqui si svolsero nell'appartamento in cui viveva ancora latitante Augusto Turati, che insieme ad Aldo Borelli, ex direttore del Corriere della Sera, partecipò al primo e al secondo di quegli incontri.
I colloqui coi socialisti ebbero luogo con il vicesegretario di allora, Foscolo Lombardi, il dott. Spinelli, segretario amministrativo, il sig. Cracena, capo delle formazioni militari socialiste [...]. Insieme con Alberto Giovannini avevamo incontrato il vecchio amico Zagari
(ex Gufino e all'epoca in cui parla Romualdi - 1971 - ministro socialista del commercio estero, n.d.a.). Per i monarchici mi incontrai più volte con Enzo Selvaggi, col marchese Lucifero, col conte Premoli [...], per "l'Uomo Qualunque" con Giannini, con Tieri e Emilio Patrissi.
I soli con i quali non ebbi mai contatti diretti furono i comunisti, nonostante che almeno in un paio di occasioni ci fecero sapere di essere dispostissimi a farlo, come in realtà lo avevano già fatto e lo fecero con alcuni nostri transfughi. Una delle due volte fu in occasione di alcuni gravi incidenti scoppiati a Napoli il 24 Maggio 1946, giudicati dalle sinistre e dalla stessa D.C., possibile preludio a più vaste sommosse nel tentativo di rinviare il referendum. Fu appunto in quella circostanza che, preoccupati dai tumulti napoletani, i miei interlocutori di sinistra mi proposero di incontrare un grosso capo comunista: Terracini, Scocimarro o Negarville, a mia preferenza. Risposi che, pur dispostissimo a intervenire per limitare i tumulti [...], cosa che feci [...], non avevo nessuna intenzione di incontrare il grosso capo comunista. Se potevo credere alle intenzioni pacifiche dei democristiani e magari dei socialisti, non potevo ovviamente credere a quelle dei comunisti.
Un discorso (quello con i partiti) che durò molti mesi, che, completato da altri contatti, portò alla fine al risultato di impegnare tutti, dai comunisti ai democristiani, ai socialisti, ai monarchici sino ai vecchioni dell'"Unione Democratica Nazionale", da Bonomi (ex presidente del consiglio nel 1944-'45) a Orlando, Nitti Ruini, a garantire che avrebbero concesso un'amnistia generale a favore dei fascisti e di quanti avevano collaborato col "Tedesco invasore".
Da parte nostra, parteciparono più frequentemente a quei colloqui Arturo Michelini, l'avv. Puccio Pucci, Sisto Favre, Olo Nunzi, il giornalista Concetto Pettinato, il generale Muratori, Vincenzo Tecchio, il professor Biagio Pace. Il progetto di amnistia, da noi presentato ai rappresentanti dei partiti, sul quale poi discussero i rappresentanti del governo, era stato preparato, assieme a un gruppo di esperti, da Mario Jannelli, un ex sottosegretario di Mussolini, che si era rifugiato a San Giovanni in Laterano nello stesso posto dove prima di lui era stato nascosto Pietro Nenni. L'amnistia fu puntualmente promulgata il 22 giugno del 1946 con la firma di Palmiro Togliatti
».

L'amnistia.
E così, in proposito, commenta ancora Pino Romualdi: «Impegno mantenuto, malgrado le difficoltà, che in ogni partito si ebbero, per superare le ostilità e le proteste dei soliti "puri", che quasi sempre sono i più faziosi e i più cretini. Proteste che in certi casi assunsero perfino il tono delle minacce di scissione. Ma i più intelligenti non defletterono e l'amnistia ci fu, anche se la clausola delle cosiddette "sevizie particolarmente efferate" che i "puri" riusciranno a imporre, ne ridusse, seppure in minima parte, le conseguenze. Rammenterò, a questo proposito, che il provvedimento portò alla scarcerazione immediata di tremila detenuti».
Qui è il caso di fare qualche considerazione: da parte fascista si è sempre fatta passare l'amnistia come il giusto compenso per voti promessi sia allo schieramento pro-Repubblica sia a quello pro-Monarchia. Ma, stante il fatto che l'amnistia era un provvedimento richiesto dalla Chiesa, dal mondo industriale e dalla burocrazia, nonché da buona parte dei gruppi politici moderati, è poi mai credibile che le sinistre dopo tutto quello che era successo nel 1945 potessero pensare di ottenere i voti dei fascisti? O i monarchici quelli dei "repubblichini" di Salò? Poi, per esempio, perché la D.C. avrebbe dovuto trattare, dal momento che si era dichiarata neutrale rispetto al dilemma Monarchia o Repubblica? E che dire poi degli stessi comunisti? Che, come afferma Romualdi: «ciò spiega perché nella battaglia per il referendum del 2 giugno, i comunisti fossero i più distesi, i meno impegnati, i più disposti ad accettare senza drammi anche una eventuale vittoria della monarchia». La realtà vera era che l'amnistia, a un anno dalla fine della guerra, e a fronte degli immani problemi economici, sociali e politici che il governo si trovava ad affrontare, era quasi un atto dovuto.

La nascita del M.S.I..
Romualdi tace, invece, come del resto hanno taciuto tutti, sia di destra, di sinistra e al centro su un fatto essenziale: il nocciolo della trattativa riguardava non solo e non tanto l'amnistia, ma la possibilità dei fascisti non più clandestini di poter far politica alla luce del sole; ammettere cioè nella repubblica "antifascista e nata dalla resistenza" la presenza di un partito dichiaratamente e apertamente fascista.
Ne parla in questo senso lo storico monarchico Artieri nel volume "Umberto II e la crisi della monarchia". Scrive infatti Artieri: «La monarchia avrebbe legalizzato il movimento neofascista in una fisionomia democratica, permettendone la partecipazione alla vita politica del Regno, secondo la regola parlamentare e costituzionale, ma mantenendo intatto il programma di politica interna ed estera di Mussolini». Lo storico Pietro Neglie in un saggio del 1991, "Il movimento sindacalista (MO.SI.) tra neofascismo e scissione sindacale", d'altro canto afferma - sempre in riferimento alle trattative per l'amnistia: «I fascisti [...] in questo modo sapevano di accrescere il proprio potere contrattuale con le forze antifasciste, primo passo per un reingresso nella vita politica del paese che, per loro stessa ammissione, pretendevano fosse del tutto legittimo e riconosciuto. Il punto era proprio questo: i fascisti chiedevano di non essere puniti per la propria fedeltà e la propria coerenza, e di poter riprendere parte attiva nella vita politica, pure in presenza delle mutate condizioni».
L'unico di sinistra che tratti il problema è Giuseppe Murgia, nel volume "Il vento del Nord" del 1975; così scrive: «Il M.S.I. nasce con la benedizione del Vaticano e il nulla osta del ministro degli interni, ambedue intenti a creare un deterrente anticomunista e a impedire che molta della base fascista che ha creduto nella socializzazione vada a ingrossare le fila comuniste [...]. Le trattative dei capi fascisti con il ministro degli interni passano attraverso l'ufficio speciale del "Centro antiincendi PS" e l'ex generale dei Carabinieri Piéche [...]. Romualdi e Michelini stipulano un patto direttamente con le gerarchie del Vaticano. Sfacciatamente le trattative che porteranno alla costituzione del nuovo movimento vengono iniziate prima della scadenza elettorale di primavera e del referendum».
Giuseppe Murgia finge di ignorare che a quella data il ministro degli esteri non è un democristiano ma il socialista Romita, il quale anche lui "trattava" con i fascisti.
Diversa è l'opinione dello storico Salvatore Sechi, che in un recentissimo saggio su "Truman, la politica dei sacrifici e l'apporto militare del P.C.I." del dicembre 1949, afferma: «M.S.I.: ricostituito col consenso delle sinistre, è un partito con una caratterizzazione inequivocabile. Si tratta del collettore di quanto (idee, rivalse e rancori, dirigenti e seguaci) è sopravvissuto alla Repubblica Sociale».
Romualdi e gli altri ebbero certamente partita vinta quasi subito: il governo infatti, nell'aprile del '46, mentre riemanò il decreto n. 149 sui "comportamenti fascisti", lasciò decadere il decreto 195, che aveva validità per un anno, e che proibiva la costituzione di movimenti fascisti. Nello stesso periodo, alla Costituente, Togliatti, stranamente, si opponeva alla richiesta di La Pira che venissero proibiti i partiti che si rifacessero a programmi "antidemocratici".
A tutt'oggi non sappiamo quale cambiale i fascisti abbiano pagato per potersi costituire in partito, ma possiamo immaginarlo: il riconoscimento del sistema democratico, oltreché, ovviamente, il rispetto delle "regole" democratiche.
Il 26 dicembre 1946 con un titolo gioioso e a tutta pagina il giornale del movimentino "Fronte dell'Italiano", "La Rivolta Ideale", annunciava la nascita del "Movimento Sociale Italiano". Lo tengono a battesimo in quel di Roma Michelini, Romualdi, Almirante, Roberti, De Marsanich, Tonelli, Mieville e tanti altri. Più lontano, nella penombra, assistono Nenni, Togliatti e De Gasperi: la Repubblica aveva partorito il suo primo compromesso storico...
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