EXCALIBUR 16 - febbraio 2000
in questo numero

Fascisti nel dopoguerra

Il fallimento della via nazionale al socialismo - storia del confronto tra "fascisti di sinistra", P.S.I. e P.C.I. nel dopoguerra

di Angelo Abis
Abbiamo visto in un articolo precedente come nel 1946 le trattative tra gli esponenti dei gruppi clandestini fascisti (F.A.R.) e gli esponenti di quasi tutti i partiti portarono alla fine all'"amnistia Togliatti" e alla costituzione del M.S.I.. A partire dallo stesso periodo, ma per un arco di tempo ben più ampio, furono posti in essere numerosi tentativi da parte di ex della Repubblica di Salò, ma anche di esponenti del ventennio fascista, soprattutto ex sindacalisti, di trovare un punto di intesa con il P.S.I. e con i comunisti sulla base di un comune programma politico anticapitalista, antiborghese, antimonarchico e nazionalpopolare.
Non è chiaro se l'intesa dovesse poi concretizzarsi in una confluenza degli "ex" nelle sinistre o nella costituzione di un movimento neofascista di sinistra fiancheggiatore. È accertato invece che quest'ultima ipotesi fu presa in considerazione, anzi sollecitata dal P.C.I., solo a partire dal 1949 e in funzione antagonista al M.S.I., che, sorto su posizioni di "sinistra nazionale", stava ormai scivolando sempre più su posizioni di destra. In tal senso il giornalista Alberto Giovannini, nel 1946, prese contatto con Pietro Nenni, il quale a sua volta lo spedì dal noto scrittore Ignazio Silone con un biglietto contenente la raccomandazione di prestare attenzione al problema dei fascisti «che non volevano finire per forza nelle braccia oscure della reazione in agguato».
Silone, con Giovannini e un altro giornalista socialista, Ugo Zatterin, resero operativo un progetto che si concretizzò con l'uscita di un giornale dal titolo significativo: "Rosso e Nero". Nel primo numero apparvero un articolo di Zatterin e uno di Giovannini con il quale il giornalista "nero" rivendicava la propria militanza fascista in chiave sociale e rivoluzionaria e proponeva il giornale "Rosso e Nero" come ponte fra il neofascismo di sinistra e il partito socialista di Nenni. Le reazioni del mondo socialista furono feroci: Zatterin venne deferito alla commissione disciplinare del partito, mentre Silone fu estromesso dalla direzione dell'"Avanti". Nenni negò di aver mai conosciuto Giovannini, il quale fu mandato al confino e il suo giornale soppresso. Nel campo socialista erano quasi tutti, molto più dei comunisti, ferocemente antifascisti, con eccezioni fra cui Carlo Silvestri, che, nel congresso del partito, tenutosi a Firenze nell'aprile del 1946, coraggiosamente disse: «I soli fascisti che abbiano avuto una mentalità tendenzialmente democratica [...], che avevano preso sul serio le promesse democratiche della Carta di Verona, perché sono stati perseguitati e dispersi sotto l'insipida taccia di "repubblichini", invece di attrarli nella sfera socialista dove avrebbero trovato l'atmosfera adatta per la loro rieducazione e il loro recupero?».
Più articolato e prolungato nel tempo fu il dialogo con i comunisti, i quali non solo avevano una conoscenza "culturale e storica" del fascismo molto più avanzata rispetto agli altri partiti; non solo avevano tentato una politica di inserimento soprattutto nei confronti dei sindacati fascisti e dei G.U.F. dicendo di condividere il programma fascista del 1919: fece scalpore il programma della Direzione Comunista nel 1936 ai "fratelli in camicia nera", ottenendo dei risultati almeno qualitativamente non irrilevanti. Essi, altresì, nel 1945, annoveravano nelle loro file e ai più alti livelli un gran numero di giovani fascisti di sinistra "pentiti", quali Davide Laiolo, Fidia Gambetti, Ingrao, Alicata, Chilanti, Zangrandi.
Subito dopo la liberazione, il primo a lanciare messaggi distensivi nei confronti dei fascisti fu, su regìa di Togliatti, Giancarlo Pajetta, uomo di prestigio cresciuto nelle patrie galere proprio per la sua intransigente opposizione al fascismo. Pajetta sarà colui che, almeno sino al 1953, svolgerà un ruolo di particolare rilievo nel recupero degli ex fascisti. In un articolo sull'"Unità" del 15 settembre 1945, Pajetta scrive: «Non saremo certo noi comunisti a volere che siano privati di ogni possibilità di vita, per sempre, quanti furono fascisti un tempo. Non siamo certo noi che chiediamo che sia tolta ogni possibilità di lavorare anche a coloro che l'epurazione colpisce e toglie dai posti che hanno indegnamente occupato». In un altro editoriale sull'edizione piemontese dell'"Unità", il 28 ottobre 1945, Pajetta difende la strategia di recupero alla democrazia degli ex fascisti contro le accuse, mosse da "reazionari" e "sedicenti democratici", di opportunismo e di spregiudicatezza. In realtà i reazionari e i sedicenti democratici sono i comunisti dell'alta Italia, capeggiati da Pietro Secchia che invocavano una "seconda ondata" contro i fascisti. Ma Togliatti non tiene molto conto della base e degli ex partigiani, né di una fetta consistente dello stesso vertice comunista capeggiata da Pietro Secchia, e prosegue per la propria strada a trattare con gli sconfitti e ad avvallare l'idea di una riconciliazione nazionale, anche perché su questa linea, con la sola eccezione del Partito Azionista, sono d'accordo tutti i partiti del governo.
A fare la prima mossa, secondo Paul Serant, il fascista francese autore de "I vinti della liberazione", furono i comunisti. In vista del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente, avrebbero preso contatto con il fascismo clandestino cui avrebbero promesso la liberazione della maggior parte dei loro militanti in cambio del voto a favore della repubblica. Di diverso avviso è Pier Giuseppe Murgia che in un volume molto fazioso ma documentatissimo asserisce: «La prima mossa per l'operazione amnistia, in riferimento al P.C.I., viene in realtà dai neofascisti [...]. Chi ha un ruolo non secondario in questa vicenda è Stanis Ruinas, l'irruento autore di "Pioggia sulla Repubblica", che darà poi vita a un gruppo eretico definito dei "fascisti rossi", raccolto intorno al periodico "Pensiero Nazionale". Assieme a lui assumono l'iniziativa Orfeo Sellani e Giorgio Pini [...]. Ruinas riesce ad arrivare a Pajetta e tramite lui ottiene un incontro con Longo».
Lo stesso Togliatti è in contatto epistolare con il sindacalista fascista Ugo Manunta. Per inciso questi contatti e incontri si protrassero, sempre con l'intento di portare a sinistra il maggior numero possibile di fascisti, sino al 1953 e coinvolsero uomini del calibro di Rodolfo Graziani che si incontrò più volte con Pajetta, il controammiraglio Ferrini, ex sottosegretario alla Marina nella R.S.I., il giornalista Concetto Pettinato. Questa accorta strategia portò nelle file del P.C.I., alla fine del 1952, circa 34.000 giovani e meno giovani "erreseisti". Ciò è desunto da un rapporto della Direzione del partito mostrato da Pecchioli, dirigente dei D.S., allo storico Paolo Buchignani autore del saggio "Da Mussolini a Togliatti, il lungo viaggio dei fascisti rossi (1943-1953)"; commenta Pecchioli: «Come se almeno 68 battaglioni di Salò si fossero riconvertiti all'Armata Rossa».
I contatti fascisti-comunisti erano segretissimi, mentre ufficialmente i rispettivi fans giuravano odio e vendetta per l'eternità. Solo dopo più di quarant'anni Pajetta e qualche altro dirigente del P.C.I. ammisero le trattative con i nemici. È dato anche a pensare che il tutto avvenisse senza il consenso dei Russi, se è vero che un agente del Comintern (l'internazionale comunista), I. Vassilij, ebbe a dichiarare nel 1949: «Il partito italiano (P.C.I., n.d.a.) non era autorizzato a "trattare", aveva accettato tra le sue braccia buona parte di minutaglia di "ex" e anche numerosi pezzi grossi; ma trattative da movimento a movimento non erano ammesse».
In realtà, a partire dal 1949, con la svolta filomoderata, filomonarchica e, soprattutto filoamericana del M.S.I., furono numerose le sollecitazioni anche ufficiali, fatte soprattutto da Pajetta, perché Stanis Ruinas costituisse un partito neofascista di sinistra (su questa singolare figura di intellettuale sardo e fascista eretico speriamo di poter scrivere più dettagliatamente in un prossimo futuro). Invero Ruinas pensò qualcosa del genere, ma riteneva di non avere le doti o le capacità per creare un nuovo partito; provò anche a coinvolgere nel progetto Giorgio Pini, ma costui si era ormai avvicinato al M.S.I., per cui non si fece niente.
Possiamo dire, in sostanza, che il tentativo di quella parte della sinistra, che in qualche modo voleva recuperare certi uomini o ambienti del fascismo le cui idee erano affini a quelle della sinistra, fallì perché in pratica si pretendeva dagli "ex" la sconfessione del proprio passato. Ma questo gli "ex" non lo accettavano: se - dicevano - i valori in cui avevano creduto erano ancora attuali, che bisogno c'era di sconfessare il passato? Quei valori (anticapitalismo, giustizia sociale, socialismo nazionale) erano la "sostanza del fascismo", il cui involucro, che essi invece rinnegavano, era costituito dall'apparato borghese e oppressivo delle masse. La sinistra invertiva invece il termine: il fascismo era "sostanza", cioè oppressione, mentre anticapitalismo, giustizia sociale, ecc., erano solo apparenza, ovvero l'involucro. Un dialogo - dunque - destinato inevitabilmente a fallire. Inoltre, per quanto utile fosse convogliare le forze ex fasciste verso sinistra anziché verso destra, il rischio di un ulteriore stravolgimento dell'identità del P.C.I., già messa a dura prova dopo la svolta di Salerno, aveva messo in allarme il corpo del P.C.I., soprattutto per il fatto che dopo "l'amnistia" di Togliatti, mentre i capi del fascismo giravano liberi, molti partigiani finivano in galera. E neppure Togliatti, che in fatto di spregiudicatezza non scherzava, poteva offuscare il significato della resistenza, che pure non amava.
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