EXCALIBUR 28 - luglio/agosto 2001
in questo numero

Prostituzione: contro l'apertura delle "case chiuse"

Inopportuno chiedere la riapertura delle "case chiuse"! Dubbi morali e pratici che fanno pendere la bilancia dalla parte del "no"

di Debora Orrù
Quattordici, quindici anni: è questa l'età media di molte ragazze straniere che affollano certe strade delle nostre città. A un'età in cui tante coetanee leggono "Cioè" e sognano il primo bacio, loro hanno già sperimentato il peggio della vita: arrivate in Italia con la speranza di un futuro diverso da quello di miseria che hanno conosciuto nel loro paese, brutalmente e ripetutamente stuprate, sottoposte in alcuni casi a riti volti a creare una dipendenza psicologica dallo stato di schiavitù in cui sono ridotte, sono immesse nel mercato della carne, che offre uno dei più abietti spettacoli che la natura umana dà di sé.
Questa situazione ha indotto molti a verificare l'inadeguatezza dell'attuale legge sulla prostituzione. Alcuni caldeggiano l'abrogazione della "legge Merlin" e la regolamentazione della prostituzione; altri, me compresa, propongono la promulgazione di leggi estremamente severe, che considerino l'induzione alla prostituzione e il suo sfruttamento un reato gravissimo contro la persona (la prostituta, ovviamente) e la morale. Non sono affatto convinta che i sostenitori della legalizzazione della prostituzione siano realmente interessati a tutelare le parti più deboli.
Molti di loro mettono in luce che la riapertura delle case chiuse permetterebbe che le strade venissero ripulite dall'immondo spettacolo offerto da prostitute e transessuali. Oltre al fatto che in questo modo il problema della prostituzione verrebbe semplicemente rimosso e non risolto, non capisco come si possa essere infastiditi dallo spettacolo di uomini e donne che svendono il proprio corpo e nello stesso tempo essere pronti a legalizzare questo mercato e quindi legittimarlo.
Non credo poi che a giustificare la riapertura delle case chiuse possa essere il desiderio di tutelare la salute dei clienti e di eventuali mogli, compagne e fidanzate. Dal momento che le prostitute sono chiaramente soggetti a rischio, il cliente si espone consapevolmente alla possibilità di contagio, e qualora metta a repentaglio la salute o la vita di un'eventuale partner o della famiglia tutta, non dichiarando di essere divenuto a sua volta un soggetto a rischio, è da ritenersi l'unico responsabile di attentato alla salute e alla vita di altre persone. I clienti dunque non vanno tutelati, ma anzi puniti con leggi molto severe, quali veri sostenitori dello sfruttamento di ragazzine che hanno magari la stessa età delle loro figlie.
La prostituzione comunque è un male morale gravissimo di per sé, al di là dei fenomeni di sfruttamento e di pedofilia con i quali non sorprendentemente si lega, e non trova alcuna giustificazione in una società che desideri definirsi "civile": l'uomo è dotato di ragione per guidare certe "pulsioni", l'esistenza delle quali non giustifica l'asservimento dell'altro al fine di soddisfarle. Certo, questa forma di prevaricazione è sempre esistita, al punto che si parla della prostituzione come del "lavoro più vecchio del mondo" (definizione viziata, è evidente, da una ricezione distorta del concetto di lavoro). Ma prendere coscienza della perseveranza di una realtà negativa non è un motivo valido per giustificarla o non cercare di combatterla: l'omicidio, lo stupro, la pedofilia sono anch'essi sempre esistiti.
Legalizzare significa legittimare per chi ha una concezione alta di uno Stato al servizio del bene, della collettività e non degli egoismi dei singoli. Stiamo ben attenti prima di proporre o sostenere certe soluzioni, per non restare impotenti di fronte a figli che potrebbero comunicarci serenamente di voler intraprendere certe "carriere", lavori come tanti altri, in una società in cui tutto è divenuto normale.
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