EXCALIBUR 38 - settembre/ottobre 2002
nello Speciale...

Rassegna stampa - Il processo

Da "L'Unità" del 25 marzo 1987 (di Tiziana Maiolo)
Processo Ramelli, inizia la sfilata degli imputati. Il primo è Montanari.
La più bruciante umiliazione, per coloro che sono imputati di aver ucciso Sergio Ramelli, non deve essere tanto il fatto di esser processati a distanza di anni luce (e di notevoli cambiamenti) da una corte d'assise, quanto il sentirsi porre le domande anche da quell'Avvocato Ignazio La Russa (parte civile) che fu un giorno minaccioso antagonista di piazza della sinistra milanese.
Ieri mattina sono iniziati gli interrogatori degli imputati, ed è toccato a Luigi Montinari - che nell'agguato a Ramelli ha svolto, per sua stessa ammissione, il ruolo di palo - sottoporsi per primo a un lungo interrogatorio, durato tutta la mattinata. Una deposizione emozionata, che la difficoltà del ricordo trasforma spesso in semplificazione della politica e delle sue ragioni. È un momento di ironia sulla militanza dell'avvocato missino.
I fatti che portarono i militanti di "Avanguardia Operaia" a uccidere loro malgrado hanno pochi lati sconosciuti, rientrano in quel clima degli anni settanta in cui l'antifascismo era diventato un vaso vuoto che ognuno riempiva con gli strumenti di cui disponeva. E ai giovani di destra che potevano esibire, insieme a una misera sottocultura, qualche muscolo o le prime rudimentali armi, spesso si rispondeva con altrettanta povertà, colpo su colpo.
Quella mattina del 13 marzo 1975, Luigi Montinari, che si stava laureando in medicina, era all'ospedale di Vialba. Di li è partito verso le 11,30 per andare all'Università, a Città Studi, dove era atteso da un compagno, Roberto Grassi, che gli aveva consegnato una chiave inglese. «Dalla facoltà di medicina - racconta Montinari - sono partito e ho raggiunto il gruppo che si stava avviando verso la casa di Sergio Ramelli. I nomi dei partecipanti alla spedizione sono quelli noti degli ex militanti che hanno ammesso le loro responsabilità. Ci sono Claudio Colosio e Franco Castelli che, insieme a Montinari, hanno compito di copertura e si attestano davanti a un negozio fingendo di guardarne la vetrina. Entrano invece nella via, per aggredire il giovane studente, Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo - gli esecutori materiali -, più in là si collocano Scazza e Costantini - un altro ex militante che, come Roberto Grassi, è morto -. Il tutto dura dieci, quindici minuti». E nessuno, a quanto pare, si rende conto di aver colpito così forte. «Pensavamo a una prognosi di pochi giorni», dice Montinari usando la terminologia medica che gli è consueta. Invece Ramelli entrerà in un coma da cui non uscirà più. Tragicamente chiaro, fino a questo punto.
Ma Il presidente della corte d'assise ha la necessità di chiarire la posizione degli imputati che si dichiarano innocenti e chiede subito se quel giorno avesse preso parte all'azione anche Antonio Belpiede. Nei quattro interrogatori resi nella fase istruttoria Montinari ha dato versioni diverse, perché non ricordava bene se l'ottavo partecipante alla spedizione fosse Belpiede o invece Walter Cavallari. E nell'ultimo interrogatorio - quasi a riprova di un'insistenza dell'ufficio istruzione in quel senso - aveva "scelto" Belpiede. Ma ieri in aula sono emerse di nuovo le incertezze. Lo stesso iter hanno avuto gli interrogatori di Montinari su Brunella Colombelli, che è stata definita prima "una delle tante staffette" che percorrevano i cortei nelle manifestazioni di piazza, poi "una staffetta che agiva in sincronia con Roberto Grassi". Il che esplicita semplicemente - ha detto ieri Montinari - il normale rapporto che legava una militante di base a un dirigente. Niente di più.
Da "Il Corriere della Sera" del 23 aprile 1987
Al processo di Milano l'accorata testimonianza della madre del giovane neofascista ucciso. «Quegli anni di odio contro noi Ramelli».
È stata una vigilia interminabile, di inquietudine e di pena. Dice l'Avvocato Ignazio La Russa: «Da quarantott'ore non sa più che cosa fare. Non dorme, piange, ride un riso nervoso. Adesso è nel mio studio, a due passi dal Palazzaccio. Verrà quando il presidente della Corte la chiamerà».
È il giorno della testimonianza di Anita Ramelli, che dovrà scavare nell'animo e nel cuore fra le immagini convulse di un'aggressione e di una morte: la morte di un figlio che allora aveva diciott'anni. L'aula è colma, come nei grandi appuntamenti. Schiere di cronisti. Troups televisive. Toghe svolazzanti. Cespugli di fotografi con gli obiettivi puntati. Pubblico oltre le transenne. Giovani "camerati" in jeans e giubbotti. Il M.S.I. ha spedito i suoi volti più rappresentativi e l'onorevole Servello si assume il compito di premuroso cerimoniere.
Eccola "mamma Ramelli", che sbuca dalla porticina laterale. Il viso tirato, gli occhi protetti dalle lenti fumé. Non guarda la gente, non guarda verso la porta degli imputati. C'è Marco Costa, c'è Giuseppe Ferrari Bravo, che sprangarono Sergio in Via Paladini quel dannato 13 marzo del 1975. Ci sono quelli del commando che fecero da pali, tranne Scazza e Claudietto Colosio. Qualcuno, pallido, abbassa la testa. Anita si raggomitola sulla sedia, davanti alla Corte. Un attimo di silenzio, che pare senza fine. Il presidente Consumano si schiarisce la voce e quasi sussurra: «Signora, io vorrei non farle domande. Non è un momento facile, né per lei, né per noi. Però sono costretto. Serve al processo. Serve per capire di più». Anita si fa forza. «Lui non amava la violenza, non era un ragazzo violento». Le parole giungono tenui, remote. La cancelleria le avvicina il microfono alle labbra. «Aveva le sue idee e non le nascondeva. È stato preso di mira dagli avversari politici. Calci, sputi. Ma Sergio minimizzava, non voleva allarmarci, metterci in apprensione».
Affiorano i giorni delle intimidazioni fra i banchi del Molinari. A scuola aveva subito due "processi". «Fu anche costretto a cancellare delle scritte sui muri. L'ultimo anno è stato il più pesante. Sempre picchetti, non poteva seguire le lezioni». La famiglia decise di ritirarlo dal Molinari e di iscriverlo in un istituto privato. «Andò a prendere il nulla osta, lo accompagnava suo padre. Nel corridoio fu inseguito e aggredito. Cadde, si alzò di nuovo in piedi e riuscì a rifugiarsi in segreteria».
Pensavamo che, con l'addio al Molinari, tutto sarebbe finito. Non fu così. Cominciarono le scritte ossessive. Sotto casa, in Via Amadeo, in Viale Argonne. «Ramelli fascista, sei il primo della lista». Arrivarono un paio di telefonate: dall'altra parte del filo nessuna voce, ma le note di "Bandiera rossa". Sergio diceva «Non può capitare niente, non faccio nulla di male. Invece...».
Quel giorno di marzo, Anita era andata a prendere a scuola Simona, in Viale Romagna. «Simona aveva nove anni. Arrivo e il "Ciao" è a terra. I campanelli. Una gran confusione. Il Ciao Sergio non aveva avuto il tempo di incatenarlo. Una signora mi strappa di mano Simona e grida: "La bambina sta con me"». La stanza del Policlinico, il coma, un mese e mezzo di agonia e la speranza che non si spegne. «Muoveva appena la mano sinistra, non avrebbe mai più parlato. Però capiva, capiva la mia disperazione. Una volta gli chiesi: "Ti duole la testa?". Lui rispose con un gesto che significava "no"».
La crudeltà non si ferma neppure il pomeriggio del funerale. «Verso le sette di sera la prima telefonata di insulti. Mio marito diceva: "Non rispondiamo". Ma loro continuavano per ore e ore. Chiamavano i vicini di casa: "Conoscete i Ramelli?". I vicini dicevano: "Sì, brava gente". Gli ignoti interlocutori inveivano con frasi cattive. I vicini, queste cose, me le hanno riferite più tardi. Noi cambiammo il numero telefonico». Anche Luigi, il fratello di due anni più grande, fu minacciato e perseguitato. «Una mattina tornava dall'ospedale in taxi. C'era lo sciopero dei pullman. Si arresta sotto casa e, mentre paga la corsa, vede un gruppo che si stacca da un angolo della strada. Lui corre nell'atrio e perde pure il portafoglio. Lo inseguono ma si bloccano in portineria. Intimano al portiere che il manifesto non deve essere tolto». Nel manifesto era scritto: «Luigi Ramelli fascista, 48 ore per sparire altrimenti farai la fine di tuo fratello Sergio». Anita ha un singhiozzo, un accenno di pianto. S'interrompe, riprende con coraggio: «Luigi fu costretto ad andarsene».
Undici anni dopo, quando la verità era ormai venuta alla luce, gli imputati inviarono alla madre di Sergio una lettera di pentimento. «Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo mai conosciuto né visto. Ma, come troppo spesso accadde in quel periodo, il fatto di pensare in modo diverso automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile. Nessuno di noi, però, aveva l'intenzione e neppure il sospetto che tutto potesse finire in modo così terribile. Oggi riteniamo profondamente sbagliato, anzi inconcepibile, dirimere le differenze tra i diversi modi di pensare con la pratica della violenza». Più tardi, ad Anita è stata recapitata una raccomandata con un'offerta di risarcimento. «L'ho letta e ho tanto sofferto». Lei ha rifiutato, non vuole soldi. «Voglio solo che la giustizia vada avanti». Il presidente non chiede altro. Il pubblico ministero e gli avvocati difensori degli imputati restano in silenzio. Il "grazie" di Consumano non è un grazie di circostanza e di educazione, ma di profondo rispetto per il dolore di una madre.
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