EXCALIBUR 39 - novembre/dicembre 2002
in questo numero

Alain De Benoist risponde...

A colloquio con Alain De Benoist, tra Europa, U.S.A. e...

a cura di Simone Olla (traduzione di Simone Belfiori)
Alain De Benoist
L'11 settembre 2001 ha cambiato decisamente il quadro geopolitico mondiale oppure ha solamente rafforzato (e giustificato) lo strapotere economico e politico dei cosiddetti paesi occidentali industrializzati? A queste e ad altre considerazioni sui futuri scenari politici, soprattutto in Europa se dovesse passare la linea guerreggiante dell'amministrazione Bush nei confronti dell'Iraq, ha fornito - molto gentilmente - alcune opinioni il filosofo francese Alain De Benoist.
De Benoist, scrittore assai noto in Italia, è direttore delle riviste "Krisis" e "Nouvelle École". Tra le sue opere tradotte in italiano: "Visto da destra - Antologia critica delle idee contemporanee" (Napoli 1980), "Le idee a posto" (Napoli 1983), "Democrazia, il problema" (Firenze 1985). Recentemente ha pubblicato per i tipi della Arianna editrice: "Comunismo e nazismo - 25 riflessioni sul totalitarismo del XX secolo", "La nuova evangelizzazione dell'Europa - La strategia di Giovanni Paolo II".

1. Si avvicina un nuovo attacco all'Iraq: ancora bombardamenti (filtrati dai media come chirurgici), ancora bambini ammazzati (passati come danni collaterali di una guerra giusta). I giornali e la televisione ce la presenteranno come una guerra giusta e soprattutto necessaria. Qual è la Sua opinione?
La guerra contro l'Iraq, che rimane estremamente probabile nel momento in cui scrivo, viene in effetti presentata, non soltanto dal governo americano ma da numerosi media occidentali, come una guerra "giusta e necessaria". La ragione invocata è la presenza in Iraq di "armi di distruzione di massa" e la minaccia che costituirebbe questo arsenale. Non c'è ovviamente un briciolo di verità in questa argomentazione. Da una parte è poco probabile che un paese come l'Iraq, indebolito e impoverito dall'embargo che subisce da anni, abbia la capacità di dotarsi di armi di distruzione di massa. D'altra parte, non si vede quale parte del mondo sarebbe in grado di minacciare.
Ma, al di là di queste constatazioni elementari, si pongono altre domande più serie. Ci si potrebbe per esempio chiedere perché e in virtù di quale criterio lo Stato iracheno si vedrebbe negare il diritto di possedere un armamento che è il proprio, diritto che è oggi riconosciuto a qualsiasi altro Stato. Un'altra semplice questione: perché l'Iraq sarebbe tenuto a lasciare ispezionare le sue installazioni militari quando lo Stato d'Israele, che possiede un formidabile arsenale di armi di distruzione di massa - nucleari, chimiche e batteriologiche - di cui nessuno contesta al giorno d'oggi l'esistenza, ha sempre rifiutato di lasciare ispezionare le proprie?
La formula, ritualmente utilizzata, delle armi di distruzione di massa è d'altronde in sé contestabile, nella misura in cui fa credere che potrebbero esistere armi senza potere "massivo" di distruzione. Ora, ai giorni nostri, tutti gli armamenti consistono necessariamente di un certo numero di mezzi suscettibili di infliggere all'avversario delle distruzioni di massa. Quanto alle armi nucleari, è particolarmente "malsano" che un solo Stato, nella fattispecie lo Stato d'Israele, possieda il monopolio nella regione: la logica del nucleare è riposta sul principio della dissuasione reciproca: solo il possesso di un tale armamento da parte di più Stati di questa regione può garantire, in una certa misura, che non ne venga fatto uso.
Bisogna infine interrogarsi sulla nozione stessa di "guerra giusta". Una tale nozione è di ordine non politico, ma morale. Ereditata dai tempi teologici, essa riappare oggi sotto una forma ideologica: la "guerra giusta"; nuova versione della crociata, sarebbe una guerra portata in nome di una concezione del Bene che si ridurrebbe per l'essenziale ai diritti dell'uomo. Una tale concezione della guerra entra apertamente in contraddizione con tutti i princìpi del diritto internazionale. La prova è che essa legittima la guerra preventiva, che questo diritto ha sempre assimilato alla guerra d'aggressione.


2. Esistono delle responsabilità degli organi di informazione di massa per quanto riguarda la scarsità di analisi e riflessioni sulla politica estera americana? Anche stavolta l'informazione riuscirà a farla passare come una guerra giusta dopo dieci anni di silenzio sui morti causati dall'embargo?
Comprendere la posta in gioco nella guerra in Iraq implica il prendere in conto la situazione politica, geopolitica ed economica mondiale. Dopo l'affondamento del sistema sovietico, gli Stati Uniti costituiscono la sola potenza planetaria. Cercano naturalmente di massimizzare la loro impresa sia direttamente, sia attraverso un'espansione dei mercati che rappresenta l'aspetto più essenziale della globalizzazione. Senza ormai dipendenza alcuna, essi adottano una marcia di conquista sempre più unilaterale. Il loro obiettivo è dunque far sparire gli ultimi ostacoli che sono ancora d'impaccio al nuovo ordine mondiale che intendono instaurare. Parallelamente, cercano di mettere le mani sulle risorse energetiche indispensabili alla crescita.
George Bush e i suoi consiglieri erano decisi a muovere guerra all'Iraq fin dal loro arrivo alla Casa Bianca. Il loro obiettivo era doppio: mettere le mani sulle risorse petrolifere irachene e premunirsi inoltre contro un eventuale deteriorarsi dei loro rapporti con l'Arabia Saudita; d'altra parte, rimodellare la carta del Medio Oriente in un senso che fosse conforme ai loro interessi così come a quelli dei loro alleati israeliani. Gli attentati dell'11 settembre 2001 sono "provvidenzialmente" giunti a offrir loro un pretesto. Essi hanno avuto premura di farne utilizzo, ma allo stesso tempo, per poter fare questo, si sono trovati obbligati a prendere una qualche distanza in rapporto ai fatti.
L'Iraq è in effetti il solo paese musulmano laico del Medio Oriente. È anche il solo paese del quale non si è mai potuto supporre alcun coinvolgimento né negli attentati dell'11 settembre, né nelle reti più attive del terrorismo internazionale. Il far credere che il miglior modo di lottare contro il terrorismo e l'islamismo radicale consiste nel prendersela con l'Iraq si tiene in piedi, in queste condizioni, sulla pura e semplice disinformazione. Le conseguenze rischiano d'altronde di sortire risultati inversi a quelli cercati: l'annientamento dell'Iraq, seguito dalla sua occupazione duratura, non potrà in effetti che rafforzare la volontà di agire delle reti terroriste. Potrebbe inoltre tradursi, sullo stesso suolo iracheno, in una nuova fiammata d'islamismo. Gli Stati Uniti, in questa vicenda, si comportano come pompieri piromani e apprendisti stregoni.


3. La politica estera degli Stati Uniti sembra essere percorsa da una schizofrenica incoerenza: l'"Impero del Bene", sempre incarnato dall'amministrazione americana con i suoi alleati, e l'"Impero del Male", che, dopo la caduta del comunismo, ha avuto diverse bandiere e assunto diverse fisionomie. Quali sono i limiti di atteggiamenti del tipo «o con me o contro di me», tanto cari alle amministrazioni americane?
Tutti i regimi totalitari tendono a dotarsi di un nemico metafisico: la classe borghese per il comunismo staliniano, gli Ebrei per il regime nazista, ecc. Da quando l'U.R.S.S. è affondata, gli Stati Uniti hanno sentito il bisogno, per legittimare la loro "impresa", di trovare un "impero del male" di ricambio. Un nuovo nemico "metafisico" è allora stato designato: il terrorismo islamico in primo luogo, poi un certo numero di paesi indicati come facenti parte dell'"asse del male", e infine l'Islam medesimo.
Si è anche vista svilupparsi un'"islamofobia" dentro la quale sono precipitati nuovamente tutti coloro che non vedono l'Islam se non attraverso il fenomeno dell'immigrazione e delle patologie sociali che essa comporta. Per dirla tutta, sono state addotte le tesi di Samuel Huntington, vecchio teorico della Trilaterale, su un presunto "scontro di civiltà". La formula è seducente, ma non ha alcuna parvenza di realtà. Osama Bin Laden non è il portavoce di una "civiltà", meno di quanto non lo sia George Bush. Huntington commette il grave errore di credere che le "civiltà" possano magicamente instaurarsi come attrici delle relazioni internazionali. Ne viene data inoltre una rappresentazione essenzialista, le si presenta come degli insiemi omogenei, cosa che in tutta evidenza non sono.
Quanto a George Bush, le sue dichiarazioni, secondo le quali tutti coloro che non sono "con lui" sono necessariamente "contro di lui", traducono non soltanto l'impregnazione puritana e biblica del suo modo di pensare, ma una reale inclinazione totalitaria. «Chi non è con me è contro di me» è lo stesso tipico ragionamento utilizzato da tutti i sistemi totalitari per legittimare le loro aggressioni contro quelli che non pensano come loro. Questa formula rappresenta allo stesso tempo l'apice di quella che Heidegger chiamava "metafisica della soggettività": la verità viene identificata con l'"io" (o il "noi"), tutto ciò che se ne distingue può essere assimilato al Male.
È chiaro che, in prima istanza, una tale rappresentazione del mondo ha come unico scopo legittimare l'espansione planetaria della logica del capitale. Da questo punto di vista, è manifesto che un personaggio come Oriana Fallaci - che ama così tanto l'Italia che ha scelto di vivere a New York - abbia preso posizione con violenza contro la riunione antiglobalizzazione di Firenze qualche mese dopo aver pubblicato il suo "pamphlet" razzista contro il mondo musulmano. Dentro l'uno e l'altro modo di procedere, c'è una perfetta continuità. L'espansione planetaria dell'immaginario della merce esige lo sradicamento di tutto ciò che può farle da ostacolo, sia che si tratti del movimento no-global, sia del mondo musulmano. In entrambi i casi ci sono "uomini di troppo"
.

4. I dieci anni di embargo in Iraq hanno causato 1 milione e 600 mila morti per malnutrizione e malattie, ma ci si ferma (un po' ipocritamente) a commemorare le vittime dell'11 settembre senza domandarsi perché questo sia potuto accadere. Quali sono le coordinate su cui dovremmo indirizzarci per comprendere i motivi che hanno scatenato l'inferno a New York e Washington?
Lo sfondo degli attentati dell'11 settembre resta per il momento assai nebuloso e non ha mancato di suscitare speculazioni varie e di nutrire certi fantasmi. Ma è innegabile che un tale avvenimento ha rappresentato un punto di svolta. La belligeranza si è bruscamente dotata di caratteristiche postmoderne. Le due caratteristiche principali sono l'asimmetria dei mezzi (è stato sufficiente un pugno d'uomini risoluti a sacrificare la loro vita, equipaggiati di un armamento irrisorio, per far vacillare la più grande potenza mondiale) e l'aumento in potenza delle reti. In un passato ancora recente i belligeranti erano stati principalmente due Stati-attori, che rivaleggiavano tra loro per pervenire all'"equilibrio delle forze". Al giorno d'oggi vediamo affrontarsi due logiche totalmente opposte: da un lato la logica pesante degli apparati istituzionali, statali e nazionali, dall'altro l'attività fluida, effervescente, transnazionale delle reti. Allo stesso tempo la figura del nemico si trasforma; è un nemico sempre meno identificabile; è contemporaneamente ovunque e in nessun luogo. Questo alimenta il sospetto e crea una reale "cultura della paura". È una notevole illustrazione delle tesi di Ulrich Beck sull'avvento della "società del rischio", vale a dire di una società dove la discriminazione tra l'amico e il nemico diviene sempre più difficile, perché al pericolo classico, definibile e localizzabile in un luogo preciso, è succeduto il rischio onnipresente.

5. Esiste in Europa un pregiudizio filoamericano?
Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe senza dubbio esaminare la situazione paese per paese. L'Inghilterra è più "filoamericana" della Spagna, l'Italia lo è certamente più della Francia. Ciò nonostante non è errato parlare globalmente di un pregiudizio "proamericano", di cui vediamo quotidianamente manifestazioni ed effetti. Non bisogna meravigliarsene.
Gli Stati Uniti rappresentano al giorno d'oggi la sola forza dominante, la sola ad avere i mezzi per colonizzare il pianeta intero, o poco ci manca, altrettanto bene sia sul piano tecnologico che culturale, economico, militare o finanziario. L'esperienza storica mostra che ogni colonizzatore trae ogni beneficio dall'interiorizzazione della sua presenza nello spirito dei colonizzati. Eccetto che in tempo di crisi, solo una minoranza prende coscienza della sua subordinazione, resiste alla colonizzazione e decide di opporvisi. Peraltro, sul piano politico, nella misura in cui l'"americanizzazione" del mondo va di pari passo con l'espansione del capitale (tuttavia senza che le due cose siano rigorosamente sinonimi), è chiaro che i partiti di destra, che sono oggi più che mai attaccati alla difesa del libero scambio e del liberalismo, reagiscono con ancora meno vigore rispetto ai partiti di sinistra. Ogni volta che un partito di destra accede al potere, la globalizzazione fa un nuovo passo in avanti. Un grande paradosso è che sono gli elettori di questi partiti a essere le principali vittime.


6. Per quanto tempo ancora l'Europa dovrà fungere da cameriere degli Stati Uniti, ringraziando l'esercito americano per averci liberato dal nazismo?
Non vedo come il fatto che l'armata americana abbia combattuto il nazismo possa giustificare la sottomissione dell'Europa agli Stati Uniti! Quelli che utilizzano un così povero argomento dimenticano che l'Armata Rossa ha anch'essa lottato contro il regime hitleriano e che la stessa ha contribuito certamente a liberare l'Europa dal nazismo in misura maggiore di quanto abbiano fatto gli Americani. Sarebbe stato pertanto necessario accettare la dominazione dell'Europa occidentale da parte di Stalin? La verità è che non ci sono vantaggi a rimpiazzare un'occupazione con un'altra. Per il momento l'Europa si costituisce soprattutto come uno spazio di libero scambio, burocraticamente centralizzata sul piano politico-istituzionale, ma aperta negli altri campi a tutte le influenze esterne. L'Europa è potenzialmente la prima forza mondiale. Le manca solamente la volontà di essere indipendente. Per quanto tempo andrà avanti così? Nessuno può dirlo con certezza. A mio avviso le cose non cambieranno, forse più rapidamente di quanto si creda, che in una situazione di crisi.
Nietzsche disse: «L'Europa si farà sull'orlo della tomba». La sola cosa sicura è che la storia rimane aperta.


7. Il nemico principale dell'Europa sono ancora gli Stati Uniti, come scrisse Lei nel lontano 1981? Quanto è fondata oggi quell'analisi?
Sì, sicuramente. Ciò non significa che gli Stati Uniti siano una figura del "male", con la quale non possiamo intrattenere che dei rapporti di ostilità. Non rivoltiamo contro l'America il suo proprio modo di vedere! In politica non ci sono (o, piuttosto, non ci dovrebbero essere) nemici assoluti, ma soltanto degli avversari che, una volta cambiate le circostanze, possono anche divenire o ritornare degli alleati. Non c'è nemmeno la fatalità per cui un paese sia per l'eternità l'avversario o il nemico di un altro. Si tratta solamente di prendere piena coscienza della situazione presente. Durante la guerra fredda il mondo era bipolare; affondato il sistema sovietico, sarebbe stato auspicabile che fosse divenuto multipolare, viceversa è divenuto unipolare. Non è ragionevole che un paese, qualunque esso sia, abbia il monopolio del potere, soprattutto quando si tratta di una potenza di un'ampiezza ancora mai vista nella storia dell'umanità. Non è neppure ragionevole che questo paese imponga il suo punto di vista al mondo intero, devastando e sradicando tutte le culture e i modi di vita differenti con il solo obiettivo di sottomettere il pianeta ai suoi soli interessi. Contrariamente a ciò che credono alcuni, il nemico principale non è necessariamente quello con il quale abbiamo le minori affinità, quello da cui ci sentiamo più lontani. Il nemico principale è semplicemente quello che, disponendo di più mezzi rispetto a tutti gli altri, fa pesare su di noi la minaccia più grande. Ho in effetti scritto da più di un quarto di secolo, in un'epoca in cui non era così evidente per tutti, che gli Stati Uniti erano il nemico principale e che lo sarebbero diventati sempre di più. Penso che oggi ce ne si renda conto in maniera maggiore e che lo si realizzerà sempre meglio nell'avvenire.
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