Excalibur rosso

Il coraggio della modernità

Che il Futurismo ritorni a illuminare la nostra società!

di Giorgio Pellegrini
Filippo Tommaso Marinetti, fondatore di un futurismo da riscoprire
«I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un'opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in sé stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l'epoca nostra, l'epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme d'arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell'economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari».
In quest'anno di turgide commemorazioni gramsciane, merita di esser citato anche quest'encomio "non sospetto" del futurismo, scandito dall'ideologo di Ales e apparso nel gennaio del 1921 su "Ordine Nuovo": serve a rimarcare subito una superiorità culturale del futurismo nella genealogia delle rivoluzioni del Novecento e ancora a sottolinearne l'esclusivo monopolio estetico della modernità di quel secolo. Carattere genetico speciale che si innerva però, con buona pace di Antonio Gramsci e dei suoi, nella trama complessa del tessuto culturale del ventennio fascista e ne favorisce e stimola - incessantemente - sino al tragico epilogo, l'approccio speciale con la modernità, unico e ineguagliato nell'Europa dei totalitarismi e oltre.
È una lunga e decisa lezione di coraggio della modernità, che resta finalmente incisa nella storia dell'Italia contemporanea e nella tradizione ideale della destra: una formula pronta a dimostrare tutta la sua vivace attualità e utilità ancora e specialmente oggi, in un Paese insidiato dai nuovi "ludditi". Proprio come quei fanatici passatisti che distrussero i primi telai industriali nell'Inghilterra del XIX secolo, contro il progresso e nel nome di un non meglio identificato King Ludd, ora sono i seguaci di un ambientalismo malinteso e di un ecologismo tirannico e settario a tenere la modernità in ostaggio alla demagogia, in un ricatto oscurantista che tarpa le ali al coraggio dell'innovazione.
Che non si spenga insomma, che non sprofondi nel silenzio dell'ignoranza e dell'oblio, quel clamore di entusiasmi che eccitava, in un passato non remoto, l'avvento della modernità nell'Italia ancora prevalentemente contadina del primo Novecento. E che non si oscuri il ricordo di quella folgorante epifania elettrica in terra sarda, a moderare il Tirso e bonificare i Campidani. All'indomani di quella tremenda guerra civile europea, incapace tuttavia di zittire i furori futuristi, era il secondo futurismo, non meno sincero del primo fiammeggiante e nuovo, a portare nell'isola dei Sardi architetture di idrovore e xilografie dinamiche e sintetiche di fuligginose mitologie carbonifere, a cantare il candore razionalista delle città nuove, dalla Nurra ai Campidani, giù sino al Sulcis e a Cagliari, a Nuoro, quando la nettezza ortogonale del cemento armato si incrociava con la linea filante delle littorine e il vento delle eliche vorticava sulle grandi ali argentate degli idrovolanti, lanciati a solcare il Tirreno.
Segue, è vero, il fragore tecnologico di un secondo conflitto mondiale, concluso da quel lampo di energia aberrante che cancella Hiroshima e illumina finalmente il profilo disumano del progresso acciaioso del secolo ventesimo, sino ad annegare la nostalgia futurista nell'incubo nucleare. Inizia la seconda età della macchina, che diventa indispensabile nemica dell'uomo e negli ultimi decenni del secolo scorso comincia a farsi evidente il dramma della devastazione ambientale. Allora anche nell'isola dei Sardi non servono più a giustificare la nuova industrializzazione le «officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi», intese come panacea per tutti i mali locali - dal banditismo alla disoccupazione.
Non risuonano più le note dei rimbombanti peana marinettiani - o majakovskiani - davanti al pericolo ecologico. Insostenibile, insomma, l'antico entusiasmo macchinico, tutto anni trenta, dei nostri Scano e Marras, Pattarozzi o Caracciolo, ma anche quello più recente, derivato dal dettato futurista ancora pulsante in certo realismo socialista, che impazza nella propaganda rossa del secondo dopoguerra, dentro lo spirito dell'utopia industriale invocato nella lunga stagione della "rinascita". E incalza intanto, potente, lo scetticismo tecnologico postmoderno di fine secolo, che si tramuta presto in attitudine isterica, pericolosamente irragionevole e violenta.
Alle critiche, sempre più aspre quanto ottuse, finisce per accompagnarsi anche la nuova furia antimoderna dei black blockers. E il politico incravattato strizza l'occhio ai vandali incappucciati e il nostro "governatore informatico", che si atteggia a patrono delle arti e del progresso tecnologico, nega dignità estetica all'essenzialità dell'elica e funzionalità energetica all'energia eolica, nel nome di un ambientalismo estremo venato di paesaggismo totalitario. Questo principe di Sanluri, alla cui corte lussuosa si sono comodamente accampati i soliti nani, scrittori e archeologhe, sembra voler barrare con uno sbrego tutta la modernità che non gli piace e osannare invece quella che gli conviene.
Contro quest'incrociarsi frenetico di contraddizioni cervellotiche, denunce isteriche e condanne sterili, dovrebbe porsi finalmente in lucida evidenza il senso ragionevole del nostro comune futuro: non può esser progresso senza tecnologia, non può esser tecnologia senza industria. Che torni a risuonare, allora, la lezione del futurismo: il coraggio della modernità, soprattutto oggi.
Coraggio nuovo, come è nuova questa modernità, avviata verso la terza età della macchina, in una formula che potrebbe intonarsi con le note moderate e intelligenti di quell'indimenticato Bottai, che già negli anni venti, giovane futurista, cercava i motivi della discussione, della riflessione, le ragioni di una tolleranza necessaria, costruttiva verso un passatismo che non era da bruciare e rinnegare bensì da rispettare, da valutare con occhi nuovi, per arricchire e aggiornare certe frenesie estreme e anacronistiche del secondo futurismo.
Forse è venuto finalmente il tempo in cui «il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri» cantato da un Marinetti ignaro di inquinamento e anidride carbonica, sia illuminato non solo dalle "violente lune elettriche" esaltate dal vate del futurismo ma anche da quel sereno, naturale e bellissimo "chiaro di luna" che il terribile Filippo Tommaso esortava, impietoso, a uccidere.