EXCALIBUR 49 - giugno 2008
in questo numero

"Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria

Testo vivamente consigliato a toghe rosse, Di Pietro, filodelinquenti, ecc.

a cura di Bianca Signorini
La copertina del libro "Dei Delitti e delle Pene" di Cesare Beccaria
Cesare Beccaria, nato a Milano nel 1738, laureato in legge poco più che ventenne, fece parte di quel gruppo di intellettuali che a Milano facevano capo al circolo dei fratelli Verri e alla rivista "il Caffè".
Detti personaggi erano fautori di un illuminismo che si proponeva di svecchiare e modernizzare la cultura giuridica, economica e letteraria italiana sulla falsariga di quanto andava facendo l'illuminismo francese, ma, a differenza di quest'ultimo, non contestava il fattore religioso né il potere politico monarchico allora vigente in tutta Europa.
L'opera del Beccaria, che in sostanza proponeva una radicale riforma dei sistemi giuridici e penali, peraltro già in corso di riforma da parte di numerosi regnanti europei, ebbe grande successo ed è alla base del diritto penale moderno, compreso il vigente codice penale italiano, il famigerato codice Rocco promulgato dal fascismo nel 1931. Il Beccaria, more solito, è in Italia poco letto, ma citatissimo quando si tratta di condannare la pena di morte, di emanare indulti, di sbattere in galera clandestini, terroristi, drogati e di difendere certi magistrati, soprattutto quando si muovono contro Berlusconi.
Vediamo quindi di fare un po' di chiarezza. Innanzitutto non è affatto vero che Beccaria aborra in toto la pena di morte. Ecco cosa dice in proposito: «La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione, quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione recupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi».
Quanto a Di Pietro e simili, ecco il giudizio di Beccaria sull'operato di certi giudici: «Il giudice diviene nemico del reo [...] non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e crede di perdere se non vi riesce [...] e di far torto a quell'infallibilità che l'uomo si arroga in tutte le cose. Gl'indizii alla cattura sono in potere del giudice [...]. Perché uno si provi innocente, deve essere prima dichiarato reo: e ciò chiamasi fare un processo offensivo [...]. Il vero processo, l'informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, è pochissimo in uso nei tribunali europei».
E, per finire, piena solidarietà di Beccaria a tutti quei cittadini che avendo sparato per difendersi da un rapinatore o da un ladro hanno avuto seri guai con la giustizia: «Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente [...]. Le leggi che proibiscono di portare le armi, sono leggi di tal natura [...]. Queste peggiorano le condizioni degli assaliti, migliorando quella degli assalitori; non inscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell'assalire i disarmati, che gli armati».
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