EXCALIBUR 54 - maggio 2009
in questo numero

I nuovi numeri della Fiat alla conquista del mondo

Strategie industriali e finanziarie alla ribalta

di Ernesto Curreli
Sopra: i marchi Fiat e Chrysler
Sotto: una catena di montaggio
Qualche anno fa nessuno avrebbe potuto immaginare che la Fiat, da fragile colosso industriale qual'era, sempre tenuto a galla dalla spesa pubblica, avrebbe potuto trasformarsi in un grande partner soccorritore di alcune tra le più grandi fabbriche automobilistiche globali.
Eppure in queste settimane si sta avverando proprio questo. Sono finiti i tempi in cui chiedeva e otteneva dallo Stato di collocare in cassa integrazione centinaia di migliaia di operai. Da almeno un quindicennio non c'era più un governo disposto a soccorrere la fabbrica torinese allargando senza fiatare i borsoni della spesa sociale. Al massimo, la Fiat negli ultimi anni riesce a ottenere incentivi fiscali per la rottamazione, ma sono gli stessi che ottengono in Italia le industrie automobilistiche straniere: così vogliono le rigide regole della concorrenza europea.
Sono anche finiti i tempi in cui la Fiat produceva macchinette di scarso valore, con materiali, motori e carrozzerie che erano gioia e sostentamento delle officine di manutenzione. Oggi le sue automobili sono certamente più sicure, montano materiali migliori e in molti casi le dotazioni interne e il comfort battono la concorrenza.
La fabbrica torinese da tempo ha capito l'antifona ed è riuscita a cambiare mentalità, operando un'imponente ristrutturazione produttiva e di mercato. In Italia era cambiato il mercato ma era cambiato anche il clima politico e il modo di concepire lo stato sociale. Ricordo una campagna elettorale di qualche lustro fa, quando Gianfranco Fini, seguito da tutto il centrodestra, aveva lanciato per primo un monito preciso proprio alla Fiat, preannunciando che in caso di vittoria il governo non avrebbe seguito la strada del passato. Perché, rilevava, emergevano nuove povertà e nuove esigenze sociali, perché vi erano settori di mercato che pur tra mille difficoltà producevano utili e davano lavoro e che in cambio chiedevano soltanto di poter lavorare senza scioperi continui, senza riunioni sindacali in favore di quello o quell'altro dittatore, senza vedersi occupata la fabbrica un giorno sì e l'altro pure.
Così la Fiat, anche in considerazione che le sempre contigue forze sindacali perdevano forza e prestigio, ha dovuto scegliersi nuovi manager che hanno saputo mettere in campo progetti nuovi, modernizzato e automatizzato le linee di montaggio producendo finalmente autovetture capaci di reggersi sul mercato grazie alla bontà del prodotto e alla convenienza del prezzo. I modelli che di recente ha immesso nel mercato ne sono una chiara dimostrazione.
Ha dovuto fare una cura dimagrante, certo, ma i risultati si sono visti nel giro di pochi anni. I suoi diretti dipendenti che operano nei suoi sette stabilimenti europei sono appena 52 mila, ma ha saputo produrre e vendere nel 2008 ben 2,2 milioni di autovetture. La Chrysler, cui è volata in soccorso su richiesta, addirittura, del presidente Obama, non senza ottenere un robusto tornaconto economico, ha ugualmente pochi dipendenti (54 mila unità), però sparsi in modo diseconomico in ventotto stabilimenti del Nordamerica. Nel 2008 ha prodotto un pochino meno, esattamente duemilioni e sessantacinque autovetture.
La differenza vera sta però nei numeri economici: la Fiat ha chiuso il bilancio 2008 con un utile operativo lordo (prima delle imposte) di ben 460 milioni di euro (quasi un miracolo nel mondo automobilistico mondiale), mentre la Chrysler, che più o meno vantava gli stessi numeri, ha subìto un vero tracollo: l'utile operativo lordo 2008 si è chiuso con una perdita secca di 1.769 milioni di euro.
Ecco perché la Fiat, oggi, ha molto da insegnare all'estero, soprattutto nel mondo anglosassone, dove sono abituati a guardare i numeri del conto economico piuttosto che le giacenze di banca o la grandezza di capannoni e stabilimenti o la capacità produttiva degli impianti. Essi infatti affermano, giustamente secondo me, che un qualsiasi stabilimento, anche nuovo di zecca e dotato di tecnologie fantascientifiche, non vale nulla se intorno a esso non c'è un manager capace e in grado di far assorbire al mercato la produzione.
I dirigenti del Lingotto sembrano ormai gli unici, nel mondo globalizzato dei manager d'impresa, in grado di rimettere in sesto gli stabilimenti che producono autovetture. Così a Berlino hanno pensato proprio alla Fiat per salvare la Opel. Sui media germanici gli esponenti del governo hanno detto e ridetto che la Opel sarebbe stata salvata in patria, forse anche per tenere insieme, nella coalizione, gli alleati socialdemocratici della S.p.d. e per tenere buoni i sindacati della IgMetall, che oppongono pregiudiziali aprioristiche. Ma anche per la grande casa automobilistica tedesca la partita sembra già chiusa a favore della Fiat. Come potrebbe essere altrimenti, visti i numeri?
Gli stabilimenti Opel in Europa sono dieci, con 54.000 dipendenti. Nel 2008 hanno prodotto appena 1,5 milioni di vetture, ma il gruppo GM Europa, cui appartiene la Opel con la Vauxhall, ha registrato un buco nel margine operativo lordo peggiore di quello registrato dalla Chrysler, con una perdita secca di 2.212 milioni di euro.
A guardare bene, sembra che i conti del 2008 non tornino per nessuna delle tre grandi case costruttrici: Fiat ha registrato ricavi (da intendere solo come "vendite") per 26,9 miliardi di euro, Chrysler ne ha registrati 36,6 e GM Europa 26,4. Come è possibile, allora, che con questi numeri la Fiat ottenga margini operativi lordi positivi? La risposta è nella premessa.
Mentre la Fiat ha saputo modernizzarsi conquistando nuovi spazi di mercato e comprimendo costi e sprechi inutili, le altre sono rimaste al passo, non hanno saputo migliorare gli impianti e non hanno trovato il coraggio di cambiare i manager che pensavano un po' troppo a sé stessi e ai loro benefit e poco o nulla alle loro imprese.
In questo ha giocato un ruolo importante anche la composizione del pacchetto azionario che si registra all'estero. Le azioni delle imprese sono polverizzate, in mano a centinaia di migliaia di piccoli azionisti che non possono seguire le vicende aziendali. Affidano da sempre i loro risparmi a promotori indipendenti che li investono a pioggia nel mercato mobiliare. Quando la finanza gira, allora percepiscono piccoli utili e vivacchiano convinti che tutto andrà bene. Quando invece non gira o, peggio, incappano in una grande crisi come quella che stiamo vivendo in questi mesi, allora perdono quasi tutto in poche sedute di borsa. Se poi le aziende di cui sono piccoli "proprietari" sono gestite male da manager incapaci o infedeli, allora non possono fare proprio nulla, perché non riescono o non possono formare una "massa" pur minoritaria che presenzi alle assemblee esponendo le proprie proteste.
Diverso è il caso delle aziende italiane: il loro capitale è poco polverizzato e sono ancora governate da ristretti gruppi azionari, spesso familiari, che scommettono molto sulla continuità aziendale e sulla sua remuneratività.
Perciò seguono da vicino le vicende aziendali e il più delle volte, quando necessario, riescono a imporre cambi di vertici e di strategie.
Anche grazie a questo quadro virtuoso l'Italia ha saputo fare meglio degli altri. Ed è proprio per le differenze sostanziali del mercato finanziario italiano che il nostro paese riuscirà a uscire dalla crisi prima degli altri.
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