EXCALIBUR 54 - maggio 2009
nello Speciale...

La prefazione del Prof. Giuseppe Parlato

La "Marcia del Volontario" di Ennio Porrino
Angelo Abis si dedica da anni a un'attività di ricerca particolarmente complessa ma sicuramente importante: ricostruire il ruolo della Sardegna nella seconda guerra mondiale e nelle vicende che seguirono l'armistizio del 1943 e la conclusione del conflitto del 1945.
Perché la Sardegna? Evidentemente perché si tratta della sua terra. Ma ciò non basta per spiegare l'interesse di Abis, come dimostrano le decine di articoli che qua e là è venuto pubblicando sull'argomento.
Il fatto è che la Sardegna appare obiettivamente marginale nelle vicende del '43 e del '45: fuori dall'area di interesse circa lo sbarco continentale che gli Alleati operarono a Salerno il 9 settembre 1943; del tutto estranea alla guerra civile, nel senso che la Sardegna non ebbe a subire la divisione tra nord e sud che invece colpì il continente. Sottoposta al Governo del Regno del Sud, la Sardegna visse in sordina le vicende del fascismo repubblicano, del movimento partigiano, della lotta fratricida.
Anzi, non le visse affatto e questo, se determinò un indubbio vantaggio per l'isola, che non fu teatro degli scontri che insanguinarono nell'immediato dopoguerra diverse zone dell'Italia soprattutto settentrionale, nello stesso tempo produsse una strana, ulteriore emarginazione della Sardegna dalla storia dell'Italia repubblicana, quasi che non le spettasse entrare in quello "spirito della Resistenza" che divenne, a partire dal 1960, il vero discrimine fra chi aveva titoli storici e morali per governare e chi invece avrebbe dovuto rassegnarsi alla marginalità e all'isolamento. Marginale, dunque, rispetto alle vicende del biennio 1943-45, ma fino a un certo punto.
Colpisce, infatti, l'alto numero di Sardi coinvolti nella guerra civile da parte fascista: militari, intellettuali, organizzatori sindacali che scelsero di combattere per Mussolini.
Le motivazioni sono differenti e non c'è, se non generico, un comune denominatore, quello tradizionale: l'onore, l'opposizione al modo in cui si arrivò all'armistizio, la fedeltà ai principi del fascismo, la fedeltà all'alleato.
Tuttavia, al di là di questo elemento comune alla maggior parte di coloro che fecero tale scelta, si riconosce un sottile filo rosso che unisce - e motiva - molte delle scelte. Il sottile filo rosso si può sintetizzare con due termini: autonomia e antiborghesia. Si può obiettare che molte delle scelte che portarono a Salò comportavano almeno la presenza del secondo dei due termini.
Tuttavia, come ebbe modo di mettere in evidenza De Felice, se dal punto di vista dell'immagine successiva - sostenuta fortemente anche dal neofascismo - la R.S.I. apparve come l'inveramento finale del fascismo dal punto di vista sociale, in qualche modo il suo riscatto quando ormai non c'era più nulla da vincere ma solo molto da testimoniare, a ben vedere le componenti sociali, sindacaliste o filosocialiste, in R.S.I. si trovarono molto spesso in difficoltà; in altri termini, a Salò la "sinistra fascista" non fu mai prevalente sulle altre componenti e comunque non fu mai in grado di determinare - al di là delle mere enunciazioni di principio - la politica della Repubblica. Tale "minorità" della sinistra sociale si riscontra anche tra le motivazioni reali che spinsero i fascisti ad aderire alla R.S.I..
Invece, nel pur variegato panorama che Abis propone al lettore c'è molto forte la presenza del senso dell'autonomia sarda e il senso di un fascismo vissuto essenzialmente come rivoluzione sociale.
Ciò si verificò già all'indomani del 25 luglio, interpretato da molti come il prevalere di quelle correnti che facevano capo al fascismo regime su quelle che si potevano inserire nel fascismo movimento. Si ha la sensazione, scorrendo le pagine di Abis, che il binomio autonomia-socialità abbia rappresentato un elemento centrale e significativo nell'ambito delle motivazioni di chi scelse di aderire a Salò.
Probabilmente ciò dipende dall'alto numero di intellettuali di cui Abis giustamente si occupa. È da parte di costoro, assai più che in campo militare, che questo tipo di motivazione finisce coll'emergere. Ma certamente la novità - e, naturalmente, l'unicità - rappresentata dalla Sardegna è costituita dallo stretto legame tra l'elemento autonomistico e quello sociale. Un binomio, ad esempio, sostanzialmente sconosciuto nel fascismo clandestino o nel neofascismo siciliano, dove l'autonomismo è tradizionalmente agrario, quindi non venato di prospettive sociali, mentre la scelta nazionale e unitaria dei fascisti è indiscutibile anche quando si verificarono momentanei ed effimeri legami tra separatismo e neofascismo.
Sono presenti nel panorama presentato da Abis intellettuali come Edgardo Sulis, che dedicò pagine essenziali alla polemica antiborghese negli anni '30 e che in R.S.I., insieme con Ottavio Dinale, tentò la costituzione di un movimento rivoluzionario repubblicano; vecchi sindacalisti rivoluzionari come Paolo Orano, che muore a Padula nel campo di concentramento dei fascisti il 7 aprile del 1945, e che viene inserito perché la scelta di fedeltà ai princìpi fascisti viene ribadita da Orano fino all'ultimo; importanti sindacalisti del ventennio come Ugo Manunta, uno dei fautori della socializzazione in R.S.I.; musicisti o pittori come Ennio Porrino, che propose all'altro sardo Barracu il testo del nuovo inno della R.S.I., o come Cipriano Efisio Oppo, che prese parte all'Accademia d'Italia in R.S.I., futuristi come Gaetano Pattarozzi e giornalisti come Stanis Ruinas, che dopo la R.S.I. tentò di costruire un ponte tra comunisti e fascisti.
E se tra gli intellettuali prevaleva l'elemento sociale, quasi una sorta di riscatto che il fascismo movimento doveva pretendere per una rivoluzione mancata, tra i militari era ben presente l'elemento autonomistico. Un elemento autonomistico che non contraddiceva la necessità dell'Italia unita, soprattutto dopo la divisione in due tronconi dopo l'8 settembre: non di separatismo si trattava, ma di ricerca delle proprie radici storico-politiche. Il caso più curioso è senza dubbio quello di un "battaglione etnico", i "Volontari di Sardegna G.M. Angioy", guidato dal Col. Bartolomeo Fronteddu, che raccolse i sardi che volevano arruolarsi nella R.S.I. e che operò fino al 1945 nella zona di Trieste. Esso si richiama all'uomo politico e docente universitario Giovanni Maria Angioy (1751-1808), che tra il 1794 e il 1796 guidò i moti rivoluzionari sardi contro i privilegi feudali dell'isola, cercando di fare prevalere in Sardegna le idee giacobine e autonomiste rispetto al Regno di Sardegna e al governo di Torino. È abbastanza significativo che il nome di Angioy sia stato posto a denominazione di questo battaglione: le suggestioni sono molteplici, dalla scelta repubblicana al giacobinismo, dall'autonomia all'odio per i Savoia.
Il ruolo della Sardegna nella fase conclusiva del fascismo è sottolineato anche dalla presenza di folti gruppi di neofascisti, decisi a riproporre il fascismo tra il 1943 e il 1945, nel nome dell'autonomismo e della opzione rivoluzionaria. Il primo neofascista a essere arrestato fu Giovanni Martini, generale della Milizia che dalla Sardegna avrebbe voluto raggiungere con un Mas la Toscana e di lì unirsi alle truppe della R.S.I.. Non ci riuscì, fu arrestato e restò in galera parecchi anni. Non era un Sardo, ma la sua vicenda incominciò e terminò nell'isola, come quella di altri giovani fascisti, divenuti poi intellettuali di rilievo (un nome fra tutti, quello di Antonio Pigliaru), che tentarono di organizzare un movimento clandestino fascista fra il 1943 e il 1944.
Il fenomeno del volontarismo in R.S.I. deve ancora essere studiato a fondo: tuttavia, in nessun luogo dell'Italia settentrionale le caratteristiche di tale volontarismo sono legate così strettamente a questi due temi: l'autonomismo e la rivoluzione sociale. Una caratteristica, quindi, tipicamente sarda, che si riallaccia a quel discorso mai del tutto interrotto, del "sardo-fascismo", quella componente che vide, dopo la prima guerra mondiale, il fascismo isolano sorgere da una costola del Partito sardo d'Azione, quello di Lussu e Bellieni.
Sorto formalmente poco prima delle elezioni del 1921 e concepito come struttura destinata ad accogliere non solo gli ex combattenti ma anche quanti condividevano propositi regionalisti e autonomisti per il futuro dell'isola, il partito si trovò, con il 1922, di fronte al fascismo. Mussolini non gradiva che gran parte del combattentismo sardo si mantenesse estraneo al fascismo e dopo una lunga serie di trattative, nel 1923 fu provocata una scissione dal Partito Sardo d'Azione che diede vita al "sardofascismo", un movimento che aveva come esponenti, tra gli altri, Enrico Endrich, Vittorio Tredici, Paolo Pili.
Per qualche anno questo movimento riuscì a dare un'impronta particolare al fascismo sardo, che comunque, almeno fino al 1927, riuscì a mantenere rapporti pubblici o riservati con i vecchi compagni del P.S.d'Az..
L'idea che quella del sardofascismo fosse una soluzione ottimale, combinando autonomismo, sensibilità sociale, spinte rivoluzionarie nel quadro di un riferimento leale al fascismo, rimase presente ma sotterranea in molti esponenti del fascismo isolano. La cultura sindacale di Endrich, ad esempio, o le elaborazioni corporative di Manunta lo stanno a dimostrare.
E poiché la R.S.I., più che una prospettiva verso il futuro, per molti fascisti fu il tentativo estremo di fare ciò che il regime aveva in qualche modo impedito di fare, una sorta di risarcimento della storia, non stupisce che le vecchie prospettive del "sardofascismo" ritornino in qualche modo di attualità durante la Repubblica sociale.
Il lavoro di Abis, da questo specifico punto di vista, assume una rilevanza notevole. Esso costituisce un ponte fra il regime e il neofascismo, una sorta di cerniera attraverso la quale passano i miti che avevano mosso il fascismo delle origini e che ora vengono riproposti, spesso più come testimonianza per futura memoria che con la convinzione che possano realizzarsi.
Gli stessi miti diventano le idee forza del M.S.I. e molto spesso esse rimangono, come durante il regime e come durante la R.S.I., sostanzialmente irrealizzate, a fronte di una elaborazione concettuale talvolta non irrilevante e comunque significativa della volontà di caratterizzare il neofascismo sardo nell'ottica di un superamento dello Stato centralizzato e della visione economica capitalista.
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