EXCALIBUR 56 - ottobre 2009
in questo numero

Katyn, il silenzio continua

Sono passati quasi 70 anni da una strage ancora dimenticata

di Angelo Marongiu
Sopra: la locandina del film Katyn di Andrzej Waida.
Sotto: il documento in cui Beria suggerisce a Stalin l'esecuzione degli ufficiali polacchi e la riesumazione dei corpi cui assistono un gruppo di alti ufficiali della Wermacht
Settant'anni fa, nel settembre 1939, l'esercito tedesco entra in territorio polacco e ha inizio la Seconda Guerra Mondiale. Nello stesso mese di settembre l'Armata Rossa invade la Polonia e la spartizione del paese tra Tedeschi e Sovietici è compiuta, come previsto dal patto Molotov-Ribbentropp.
18 mila ufficiali dell'esercito polacco, 230 mila soldati e 12 mila ufficiali di polizia sono arrestati dai Russi e deportati o internati nei campi di detenzione di Ostashkov, Kazielsk e Starobielsk, gli ultimi due in particolare destinati agli ufficiali.
Nella primavera del 1940, esattamente il 5 maggio - per espresso ordine di Stalin - circa 15 mila di loro (oltre la metà sono ufficiali) vengono uccisi con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni nella foresta vicino a Katyn, nell'attuale Bielorussia.
La futura classe dirigente polacca - gli ufficiali erano di norma laureati - è spazzata via.
Nell'aprile del 1943 i Tedeschi scopriranno le fosse, ma i Russi scaricheranno su di loro la colpa del massacro. Nel processo di Norimberga - in un macabro gioco di opportunismo sulla pelle dei morti - Katyn non viene mai nominata.
In tutto il dopoguerra i Sovietici misero in atto un sapiente capolavoro di disinformazione, spostando in avanti nel tempo il massacro, cambiando nome alle località e lasciando quindi la responsabilità sulle spalle dei Tedeschi.
L'Occidente fu connivente in questo cinico gioco di responsabilità, poiché non fu capace di denunciare le responsabilità di Stalin: l'alleato russo era indispensabile contro il nemico tedesco. Occorre arrivare al 1992, dopo la caduta del muro di Berlino e delle ideologie a esso collegate, perché Boris Eltsin ammettesse la piena responsabilità dell'Unione Sovietica; consegnando alla Polonia i documenti che attestavano la loro colpevolezza disse semplicemente: «Perdonateci, se potete».
Ci sono voluti circa 50 anni.
Andrzej Waida ha oltre ottant'anni ed è considerato uno dei più grandi registi della cinematografia mondiale. È autore di film> importanti, che hanno segnato la storia del cinema, attraverso la descrizione di conflitti personali e sociali dal deciso sapore autobiografico: "L'uomo di marmo", "L'uomo di ferro", "Danton". Tutti film impregnati di quel romanticismo polacco: emblematica in "Katyn" l'immagine del Cristo coperto dal cappotto dell'ufficiale polacco che si vede nella prima parte del film.
Nella guerra Waida ha perso il padre Jakub - capitano del 72º reggimento di fanteria - e ha trascorso tutta la sua vita a preparare questo film, anche per mettere a tacere alcuni fantasmi personali. Il rigore narrativo è sempre stato l'elemento caratterizzante dei suoi film ed è particolarmente presente in quest'opera asciutta, grido della sua anima di figlio e di Polacco.
Sono 117 minuti di grande cinema, un pugno allo stomaco, testimonianza lucida di due totalitarismi che - nella loro visione cinica dei destini del mondo - usano uomini, nazioni e ideologie per perseguire un disegno utopico e irrealizzabile.
È un film che in Polonia ha rinnovato le vecchie ferite e ha reso ancora più acuto il dolore di una nazione che è stata segnata per decenni da questa tragedia.
Tra gli ufficiali tedeschi e gli ufficiali sovietici - entrambi al servizio di aberranti ideologie - si muovono gli ufficiali polacchi, quasi cavalieri d'altri tempi legati alla loro divisa, alla loro patria, alla loro religione cattolica, alla loro lealtà militare; ma sacrificati in modo barbaro e cinico.
Cinismo concentrato nella frase: «Cannoni, artiglieria, li puoi sostituire. Ventimila ufficiali educati e addestrati non sono rimpiazzabili».
È un film che rievoca la dignità e il coraggio delle vittime, viste non come eroi ma come semplici uomini, che affrontano la morte a testa alta, recitando il Pater Noster, in attesa del colpo alla nuca. Mostra anche la tenacia, l'ostinazione nella ricerca della verità e l'incredibile speranza di coloro, madri, mogli e figlie, che aspettano il loro ritorno.
Un film che è anche un atto di giustizia. Fa riemergere un passato che molti a est (ed anche a ovest) avrebbero preferito restasse sepolto per sempre.

Tullio Kezich (recentemente scomparso) su "Il Corriere della Sera": «In un paese che insiste a dirsi civile, questo sarebbe un film da vedere in piedi».
Fabio Ferzetti ne "Il Messaggero": «Una lezione di storia».
Natalino Buzzone su "Il Secolo XIX": «Un'opera solenne, ieratica, toccante e austera».
Alberto Crespi su "l'Unità": «Vederlo, per chi si è riconosciuto nel comunismo, nelle sue grandezze e nelle sue tragedie, è compiere un atto di giustizia».

Dopo due anni dall'uscita ufficiala del film - candidato nel 2007 all'Oscar come miglior film straniero - esso è stato proiettato solo in tre dei 107 capoluoghi di provincia, contando alcune sale parrocchiali: dieci cinema sugli oltre 4 mila sparsi in Italia.
Un film definito struggente - da vedere come una lezione di storia - sugli orrori della guerra e sui misfatti della pace, non ha avuto più di 20 mila spettatori.
Volutamente relegato nell'oblio. Quasi la perpetuazione di un secondo massacro, costretto a una circolazione clandestina, affidata ai passaparola. Come se il male commesso da chi perde debba essere sempre oggetto di condanna, mentre quello commesso da chi vince può essere dimenticato, o peggio, nascosto.
Boicottaggio commerciale e storico-culturale, messo in atto da chi governa le fila della distribuzione commerciale e da chi ha in mano le chiavi della cosiddetta "cultura".
Katyn è stato proiettato all'ultimo Festival del Cinema di Venezia, all'ultimo Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini e venerdì 4 settembre è stato trasmesso nel circuito di Sky.
Io l'ho visto, non grazie alla televisione pubblica, forse impegnata a preparare Miss Italia.
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