EXCALIBUR 60 - giugno 2010
in questo numero

Israele e il diritto internazionale

Obiettività vo cercando, ch'è si cara...

di Angelo Marongiu
Sopra: il palazzo dell'Onu a New York
Sotto: lo stucchevole rito delle bandiere bruciate, la "civiltà" dei contrari
Quando quest'articolo vedrà la luce, sicuramente tutto il clamore sulla vicenda Israele-blocco di Gaza sarà passato ormai in secondo piano, sostituito da altri argomenti che i mass media sono bravissimi a portare alla nostra attenzione. Della vicenda resteranno solo nove anonimi morti già dimenticati.
E si ricorderà il solito ritornello che ormai - quando c'è Israele di mezzo - giornali e tv ci propinano con imperturbabile monotonia: «Israele assassino», «Israele stato terrorista» e via dicendo.
In questi avvenimenti, di particolare, rispetto ad altri episodi simili, c'è la frase pronunciata dai responsabili della nave Mavi Marmara, che, di fronte alla richiesta israeliana di fermarsi per consentire il controllo della nave, hanno risposto «Go back to Auschwitz». Risposta degna di chi si professa pacifista e carico di aiuti umanitari per i poveracci che vivono a Gaza. È una frase che non tutti hanno sottolineato a sufficienza, pur nella sua abnorme e mostruosa evidenza non antiebraica, ma antiumana.
Dopo la prima indiscriminata levata di scudi contro Israele - niente di più succulento che cibarsi di morti, nove, uccisi da Israele, per allietare il pranzo del mondo - e dopo che tutti i media si sono avviati con entusiasmo alla ennesima crociata contro la belva sionista, ebbene, dopo questa prima sbronza collettiva di indignazione, sono arrivati i video, le testimonianze e si sono visti i "pacifisti" che con bastoni e mazze hanno accolto il commando israeliano che - uno alla volta, calato da una fune - scendeva sulla tolda per assaltare la nave! Nessun network si è preoccupato di mostrare con la stessa evidenza che i pacifisti non erano affatto inermi e che addirittura c'era fra loro chi, smanioso di diventare un martire, aveva fatto testamento.
Israele non si è mai curato di "abbellire" la sua immagine e anche questa volta ha commesso una serie ingenua di errori.
Per chi conosce un po' la storia di Israele, sono memorabili gli scontri - e siamo negli anni cinquanta - tra Ben Gurion, primo Ministro, e Moshe Sharrett, allora Ministro degli Esteri. A Sharrett, che gli suggeriva di moderare termini e azioni per non inimicarsi l'opinione pubblica internazionale, Ben Gurion rispondeva sempre che ciò che gli interessava era sempre e solo l'opinione degli Israeliani, e che una vita salvata valeva più di qualsiasi titolo di giornale. Per Israele la sicurezza è sempre stata più importante della pace.
Da allora le cose non sono cambiate di molto.
Ma ciò che mi ha maggiormente incuriosito di questa vicenda è stato il riferimento - pressoché costante in tutti i commentatori - circa la violazione, da parte di Israele, delle più elementari norme del diritto internazionale.
Le mie reminiscenze di diritto internazionale sono un po' vaghe, e quindi ho ripreso il (brutto) testo universitario - "Istituzioni di diritto internazionale", a cura di Carbone, Luzzato e Santa Maria, Giappichelli Editore (2003).
Il diritto internazionale è quanto di più soggettivo possa esistere nel campo delle relazioni tra gli Stati, basato com'è esclusivamente su norme consuetudinarie e pattizie, e pertanto sfuggenti a una precisa classificazione di comportamenti e procedure.
La premessa fondamentale che molti - volutamente - fingono di ignorare è che a Gaza non vi è un solo centimetro di terra occupato dagli Israeliani. Gaza è stata restituita con un atto unilaterale da Sharon all'Autorità Palestinese, e da allora, su quel territorio, non vi è un solo Israeliano (tranne il caporale Shalit, ma questo è un altro discorso).
Ora a Gaza "governa" - dopo un colpo di stato - il regime di Hamas, definito "terrorista", non dimentichiamolo, dall'Unione Europea. Da Gaza, nella sovrana indifferenza della comunità internazionale, si sparano missili in territorio israeliano diretti certo non su installazioni o obiettivi militari, ma in modo indiscriminato verso i civili.
La banale risposta di Israele è quella di fare in modo che ai signori che governano Gaza non possano arrivare rifornimenti di armi.
«Il diritto all'autotutela individuale o collettiva, è oggetto di una previsione di diritto internazionale generale, riconosciuto dall'art. 51 della Carta, riferendosi al diritto naturale di autotutela, preesistente alla Carta medesima» (pagg. 294-295 del testo citato). Per inciso, la Carta cui si fa riferimento è lo Statuto delle Nazioni Unite, approvato nell'ottobre del 1945.
Se vogliamo ulteriormente legittimare tale azione di blocco - fermandoci alla definizione di legittima difesa, anche se esisterebbero tutti i presupposti per un'azione armata - ricordiamo che l'art. 3 della "Risoluzione dell'Assemblea Generale sulla definizione dell'aggressione", nell'elencare una serie di ipotesi ritenute idonee a definire "aggressione" le azioni dirette contro uno Stato membro (e quindi anche verso Israele - fino a prova contraria), recita:
«[...] b) bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato».
Gaza non fa parte di uno stato giuridicamente e formalmente riconosciuto, ma la sua presenza all'Onu, in qualità di osservatore permanente, investe chi governa quel paese non solo dei diritti che da questo discendono, ma anche dei conseguenti doveri.
Se poi vogliamo enucleare il concetto di doveri statuali da Gaza, come ha tentato di fare la commissione Goldsmith nella sua relazione sui fatti di Gaza del gennaio 2009, allora - a maggior ragione - Israele ha tutto il diritto di reagire in maniera violenta a qualunque azione di minaccia proveniente da Gaza, anche "verbale", e non esiste alcun cavillo di diritto internazionale che possa vietarlo.
L'azione di Israele, pertanto, rientra pienamente nelle norme sull'autotutela del diritto internazionale, che prevedono la possibilità di istituire un blocco navale e dunque perquisire le navi che vi si avvicinano, anche fuori dalle acque territoriali. E chi non si ferma può essere, secondo tale diritto, bloccato, attaccato e anche affondato.
Sfogliando quel testo ostico mi sono imbattuto sulle norme che vietano l'uso della forza per la risoluzione dei conflitti tra Stati (che poi è lo scopo fondamentale della costituzione delle Nazioni Unite).
Tali norme vietano non solo l'impiego della forza ma «ne proibiscono anche la semplice minaccia, consistente nell'esplicito annuncio dell'impiego della forza al verificarsi o non verificarsi di un certo evento» (pag. 293 del citato testo).
È ciò che fa quasi ogni giorno l'Iran nei confronti di Israele, quando minaccia di farlo "sparire" dalla faccia della terra. L'Iran è uno stato che fa parte delle Nazioni Unite, e ne ha ratificato lo Statuto e pertanto è obbligato a rispettarlo, senza eccezione alcuna.
Se qualcuno ha notizia di cortei di protesta davanti alle ambasciate d'Iran con qualche bruciatina di bandiera o anche senza, di qualche manifestazione di protesta dei nostri pacifisti (con bandiera arcobaleno o anche senza), di qualche precipitosa riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o almeno di qualche parola espressa in una qualunque assemblea di questo augusto consesso, o almeno di qualche titolo indignato nei nostri giornali "progressisti", mi informi, per piacere, io non ne sono a conoscenza.
Forse mi sono distratto.
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