EXCALIBUR 62 - dicembre 2010
in questo numero

Per Fini una condanna senza appello

Il lento cammino verso il nulla

di Isabella Luconi
È il 1946: nasce il Movimento Sociale Italiano: Msi. Una fiamma tricolore come simbolo. Eravamo fascisti, o almeno così ci etichettavano, e uccidere un fascista non era un reato.
Morire per questo motivo era considerato un onore, e ai funerali di chi aveva dato la sua vita per difendere un ideale, vibrava nel cielo, forte, chiaro, e pieno di rabbia, il nostro "presente" al camerata scomparso.
Abbiamo vissuto così per tanti anni, perseguitati, calpestati, esclusi dalla società civile, ma uniti da quel filo indistruttibile che faceva di tutti noi una comunità di camerati.
Solo chi lo ha vissuto può capire cosa nasce dentro un cuore, cosa lega un uomo a un altro uomo, cosa significa credere e combattere per una idea: non erano parole al vento come lo sono oggi, ma l'impegno di una vita, della propria vita, quell'impegno che ci aveva portato a diventare militanti della Giovane Italia e poi del Fronte della Gioventù: eravamo giovani e arditi, diversi dai nostri coetanei che non capivano che il nostro impegno non era dovuto solo alla fiamma dell'adolescenza ma era la nostra vita, era ciò per cui volevamo vivere, era ciò in cui abbiamo creduto.
Non era solo un sogno: come dice Veneziani, i sogni rimangono nel limbo della fantasia, mentre per noi era la realtà, quella realtà in cui volevamo vivere e combattere.
Gianfranco Fini ha ereditato questo immenso patrimonio di cuori e di passioni, e l'unica cosa che è stato capace di fare è stata quella di cancellare quella fiamma, e con lei sono stati cancellati migliaia e migliaia di uomini che per anni l'hanno difesa dagli attacchi di tutta la sinistra e di tutti quelli che si dichiaravano antifascisti e quindi degni di appartenere alla società civile. Ma è civile una società che ammazza il proprio fratello?
Ma il compagno Fini, ormai divenuto antifascista doc, non si è accontentato solo di spegnere quella fiamma, ha anche venduto i nostri cuori e le nostre anime. Però non è l'unico colpevole: con lui sono colpevoli anche i famosi colonnelli, quelli che come noi erano cresciuti nella Giovane Italia e nel Fronte della Gioventù.
La storia insegna che quando un generale dà un ordine sbagliato, i colonnelli si ammutinano e prendono il comando. Ma i nostri colonnelli non l'hanno fatto, hanno solo preso le poltrone che Berlusconi gli ha dato in cambio della loro fedeltà. È però inutile continuare a parlarne, la nostalgia fa male al cuore, la sconfitta debilita il corpo e il tradimento uccide l'anima.
L'impossibilità di lottare per ciò in cui si crede è quanto di peggio possa succedere a un uomo, soprattutto se quest'uomo è un uomo di destra. Perché vivere significa lottare per ciò in cui si crede, significa avere la viscerale convinzione che la materialità è destinata a finire, ma il ricordo di un uomo rimane nel cuore dei vivi per la sua onestà, per il suo coraggio, per la sua specificità e per essere stato degno di chiamarsi "uomo".
Questo è stato il senso della nostra vita e della vita di tutti quei camerati che l'hanno persa per difendere ciò che eravamo.
A tutti loro chiediamo perdono.
Ma non esiste perdono per un delitto così grande, se non il giudizio della storia.
L'unica cosa che ci rimane sono i ricordi, ricordi che nessuno potrà portarci via, neanche quell'uomo, se tale si può chiamare, che ha venduto le nostre anime a un altro uomo con il quale nulla avevamo e abbiamo in comune, gli ha consegnato i nostri ideali, i nostri valori, le nostre vite, e in cambio abbiamo ricevuto un ritornello pubblicitario: «Per fortuna che Silvio c'è».
Quando l'ho sentito per la prima volta, il cuore si è gonfiato di dolore e ho pianto: era la fine di un sogno, come dice Veneziani, o, forse ancora peggio, la fine di una vita.
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