EXCALIBUR 63 - gennaio 2011
in questo numero

Marchionne e il re nudo

Il sindacato rosso: il tramonto di un mito storico

di Angelo Abis
L'a.d. Fiat Sergio Marchionne
C'era una volta in Italia un grande sindacato: la Cgil.
Milioni di iscritti, proprietà immobiliari a non finire, un apparato burocratico fatto di decine di migliaia di persone retribuite, una capacità di mobilitazione straordinaria. Un'arma letale: lo sciopero generale, in grado di mettere in crisi i vecchi governi della prima repubblica. Assoluto disprezzo per le leggi quando si trattava di fare i picchetti, occupare fabbriche o edifici pubblici, promuovere cortei e manifestazioni non autorizzate, bastonare o cacciare fuori dagli uffici i crumiri.
Intendiamoci, non è proprio che la Cgil si sia fatta tutta da sé. Accadde che, caduto il fascismo nel 1944, il governo Badoglio, garantito dall'inedito appoggio di Togliatti appena rientrato in Italia dalla Russia, regalò al Pci tutta l'organizzazione dei disciolti sindacati fascisti.
I comunisti e Togliatti, che scemi non erano, sostituirono le vecchie targhette dei sindacati fascisti, con le nuova sigla Cgil, ma non "epurarono" un solo dirigente o iscritto fascista, anzi fecero loro chiaramente capire che avrebbero potuto proseguire la loro attività sindacale, "garantiti" per il proprio passato. Tant'è, che a tutt'oggi, la Cgil rifiuta di consegnare all'Archivio di Stato gli archivi dei disciolti sindacati fascisti, di cui è in possesso, asserendo (bugia grande quanto una casa) di ignorarne l'esistenza, proprio per non rendere noti i nominativi di migliaia di "camerati" riciclatisi nella nuova sigla.
Così poté accadere che sino al 1949, vi fosse all'interno della Cgil una corrente, il Mo.Si. (Movimento Sindacalista), costituita da un gruppo di sindacalisti, di cui alcuni anche reduci della Rsi, che facevano riferimento ai postulati del sindacalismo corporativista e fascista. E accadde anche, a Cagliari, che un fascista abbastanza conosciuto, Mario Pazzaglia, nel '45, fosse al contempo dirigente sindacale della Cgil e organizzatore del gruppo fascista clandestino più consistente della città.
C'è anche da aggiungere che il secondo dopoguerra non fu tutto rose e fiori per il sindacato rosso. L'esclusione del Pci e del Psi dal governo nel 1947 e la successiva sconfitta elettorale alle politiche del 1948, determinarono un atteggiamento molto duro da parte degli organi dello stato nei confronti del sindacato: furono represse con forza le manifestazioni di piazza, vi fu una forte epurazione soprattutto negli arsenali e negli stabilimenti militari.
Ma è a partire dal 1968 che la Cgil riesce a espandere in maniera abnorme il proprio potere. Da un lato egemonizza le altre due grandi organizzazioni, la Cisl (filo-democristiana) e l'Uil (social-democratica e repubblicana) e mette in un ghetto la Cisnal (filo-missina).
Dall'altro diventa interlocutore privilegiato non solo della controparte economica, ma anche del potere di governo. Per dirla in breve, né il governo, né gli industriali, possono fare niente senza il nulla osta della Cgil. Ma è anche vero che i tre poteri (sindacati, Confindustria e governo) nei momenti essenziali si aiutarono vicendevolmente. Per esempio quando, a fronte di un'offerta, da parte della società automobilistica "Ford", di acquisto della ormai decotta fabbrica pubblica di automobili "Alfa Romeo", il governo, con grande plauso delle organizzazioni sindacali, regalò l'impresa alla Fiat.
Ma per venire ai giorni nostri, com'è potuto accadere che la parte più consistente, più dura e più combattiva di quello che è rimasto della mitica classe operaia, e cioè la Fiom-Cgil, si sia fatta mettere al tappeto non da un "padrone", ma addirittura da un amministratore delegato, anche se prestigioso, quale è Marchionne?
Sgombriamo subito il campo dalle cortine fumogene levate prima e dopo il referendum tenutosi alla Fiat-Mirafiori il 13 e 14 gennaio scorsi. Non era in ballo la firma a un contratto aziendale capestro: la Cgil ne ha siglato di ben peggiori. Vedi, ad esempio, quello firmato con la Telecom, che avvalla la soppressione di migliaia di posti di lavoro. Né il contendere riguardava il salario dei lavoratori, che col nuovo contratto sarebbe migliorato.
La verità vera è che il referendum non era altro che la cartina di tornasole non del potere di Marchionne, che, se anche lo avesse perso, non avrebbe avuto difficoltà a trasferire la produzione automobilistica da qualche altra parte, ma del potere della Cgil, da qualche anno del tutto fittizio, di poter ricattare e condizionare la sinistra parlamentare di riferimento, le altre organizzazioni sindacali, la Confindustria, il governo.
Non che il condizionamento non sia stato tentato, ma sia il governo che le altre organizzazioni sindacali nulla potevano contro il deciso aut-aut di Marchionne: o passa il mio progetto di produzione o chiudo la Fiat-Mirafiori.
La Confindustria è stata gentilmente messa alla porta, in quanto la nuova società Fiat, per adesso, non aderisce all'associazione degli industriali. La vittoria dei sì ottenuta fra gli operai, e non grazie al voto degli impiegati, come si è voluto far credere, ha palesato una realtà che tutti conoscevano: la Cgil non esiste più come sindacato della classe operaia. Al più è una forte associazione di pensionati, che fatica sempre più a portare un po' di gente in piazza e che non porta più neanche voti alla sinistra: pare che la vecchia classe operaia si trovi più a suo agio nei paraggi della Lega o del Pdl.
Un'ultima considerazione: a fronte di un coro di denunce di violazioni della costituzione, delle leggi e dei diritti dei lavoratori da parte di Marchionne, non c'è stato in tutta Italia un solo magistrato che abbia trovato il tempo non dico di inviare un avviso di garanzia, ma neppure di procedere alla classica e innocua apertura di un fascicolo.
Erano (e sono) tutti impegnati a indagare sui bunga-bunga del Cavaliere!
E poi dicono che, in Italia, la magistratura è di sinistra!
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