EXCALIBUR 65 - luglio 2011
in questo numero

Pansa: un'altra provocazione

Una voce fuori dal coro rivela il mondo non sempre limpido della stampa

di Angelo Marongiu
Il libro di Giampaolo Pansa, "Carta straccia"
Libro scanzonato, ma allo stesso tempo feroce; divertente e perfido e alla fine delle oltre quattrocento pagine, amaro e desolante.
È l'ultima fatica di Giampaolo Pansa, "Carta straccia", che nel suo sottotitolo "Il potere inutile dei giornalisti italiani" enuncia lo spirito che anima l'opera e le conclusioni alle quali giunge.
Certamente Pansa non ama invecchiare serenamente, riverito e ricordato come un santone. Dopo aver demolito nei suoi libri la Resistenza, prima quella "rossa" e poi le "altre", continua in quest'opera la sua personale analisi del mondo del giornalismo che lo ha visto indiscusso protagonista per oltre cinquant'anni.
Demolisce senza pietà tutti i mostri sacri del mondo dei media e della politica: da Fabio Fazio a Nichi Vendola, da Michele Santoro a Giorgio Bocca, da Ezio Mauro a Gad Lerner, da Giuseppe Floris a Eugenio Scalari, mettendone in luce, con beffarda ironia, le piccinerie e le meschinità. Si salvano in pochi, tra giornali e giornalisti: Padellaro e il suo giornale, Feltri e pochi altri. Il resto di quel mondo è aria fritta, servilismo, sciatteria, approssimazione.
È un libro sul giornalismo italiano e su sé stesso: dagli inizi a "La Stampa" di Torino, percorre i suoi lunghi anni a "L'Espresso" e a "La Repubblica", finché - osteggiato e insultato - finisce a scrivere per "Libero".
Ricordi intessuti di pagine commoventi, come quando ricorda colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca.
È un'altra resa dei conti con il mondo della carta stampata, che dopo averlo accolto e amato, lo ha ripudiato e allontanato perché la sua voce non cantava più nel coro e la sua non era più la solita monotona canzone della sinistra italiana.
E i capi delle grandi testate, i direttori dei giornali con i quali ha collaborato, sono ritratti in maniera impietosa, così come i colleghi ed ex amici.
Ma sullo sfondo - tra i ricordi e le sue riflessioni beffarde - attraversando il mondo dei giornali e della televisione, un universo a volte amaro e a volte ridicolo, aleggia sempre la sua desolante riflessione: «sono un signore che ha trascorso cinquant'anni nei giornali [...]. Che cosa ho capito della mia professione? All'inizio pensavo che avesse la forza di un gigante, in grado di vincere su chiunque. Poi ho cambiato opinione: in realtà il nostro è un potere inutile, serve a poco, non conta quasi nulla rispetto a quello politico, economico e giudiziario».
Il quadro del giornalismo italiano è grottesco e desolante: un insieme di pagine nelle quali i fatti e le opinioni non sono certo distinguibili. Con pretese di verità si spacciano ipotesi e illazioni, imprecisioni e violenza verbale che lascia annichiliti i giornalisti stranieri. Una stampa nella quale a un articolo di un cattedratico, collaboratore della testata da anni, si ha la faccia tosta di "aggiungere" 31 righe senza alcuna giustificazione e senza alcuna spiegazione per i lettori. L'unico motivo è che l'articolo non era abbastanza duro nei confronti di Berlusconi! Alla faccia della libertà di opinione.
Walter Lippmann sosteneva che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve». Se è davvero così l'Italia sta proprio male.
Ma oltre le informazioni, sono le stesse opinioni che vengono sbandierate per verità: e si ha anche la pretesa di avere il diritto di esprimere odio dai giornali (Travaglio), facendo finta di ignorare che la semina di odio e di ingiurie e di disprezzo finisce sempre per armare le mani di qualche imbecille. La guerra giornalistica combattuta in Italia è sempre stata al servizio di una guerra politica: e gli attacchi a Fanfani e Forlani, Andreotti e Craxi, Cossiga e Berlusconi, sono sempre stati strumentali a diversi disegni politici, mai alla sete di verità.
La pretesa di "bocca della verità" che la sinistra di tutto il mondo ha rivendicato poggia, come sempre in questi casi, in una sorta di autoreferenzialità onnicomprensiva, che vale in Italia, ma purtroppo anche nel resto del mondo. E quindi si danno i premi Nobel a Garcia Marquez, adoratore di Fidel Castro, ma si nega a Borges, accusato di essere un reazionario o a Philiph Roth, perché non sufficientemente anti-americano.
Forse è proprio questo squallido conformismo che ha disgustato Pansa, capace ancora una volta di togliersi gli occhiali dell'ideologia e di cercare di "vedere" oltre.
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