EXCALIBUR 66 - ottobre 2011
in questo numero

Settembre 1939: la non belligeranza italiana

L'Italia aveva paura dei Tedeschi? Un quesito che riemerge

di Ernesto Curreli
Sopra: a sinistra, "denti di drago" dello sbarramento anticarro a Pian dei Monti; a destra Galeazzo Ciano
Sotto: 21.11.1940, da sinistra: Wolff, Heidrich, Himmler, De Bono, il capo della polizia italiana Bocchini, H.G. von Mackesen
Una recente pubblicistica riesamina le ragioni per le quali l'Italia nel settembre 1939 dichiarò la "non belligeranza" e quelle che spinsero invece Mussolini a scendere in campo nel giugno del 1940. Andrebbero ricercate nel timore dell'espansionismo tedesco: era meglio schierarsi con l'alleato dell'Asse per eliminare contrasti, spegnere le rivendicazioni sull'Alto Adige e vanificare il disegno germanico di affacciarsi sull'Adriatico. Tesi non nuova, già avanzata nel dopoguerra da diversi uomini di vertice (Acerbo, Ambrosio).
All'epoca le spiegazioni dominanti per la non belligeranza erano che, almeno all'inizio, nessuno poteva immaginare quale sarebbe stato l'esito della lotta: l'esercito francese era considerato il più forte d'Europa e la Gran Bretagna, di cui si conosceva il notevole riarmo nel biennio 1938-1939, possedeva la più grande flotta del mondo, con la quale poteva attuare un pesante blocco continentale. Solo quando le armate tedesche nella primavera del 1940 travolsero facilmente Francesi e Inglesi, Mussolini decise la guerra per non escludere l'Italia dalle trattative di pace e per accedere alle conquiste territoriali che sarebbero certamente venute dalla "guerra parallela". Insomma, si era trattato di una scommessa, persa, sull'esito della guerra.
Però, meglio esaminando documenti e memoriali, sembra emergano anche altre spiegazioni. Sono da prendere con cautela i diari di Galeazzo Ciano e di Giuseppe Bottai, così come i memoriali di Dino Grandi, perché sono in parte rimaneggiati nel corso del conflitto (Ciano) o nel dopoguerra (Bottai e Grandi), per giustificare a posteriori la loro pretesa politica antitedesca.
Invece, non possono essere minimizzati i memoriali dei diplomatici e i documenti ufficiali militari italiani, custoditi presso l'Ufficio Storico delle forze armate. Dai numerosi verbali di riunione e dai rapporti trasmessi anche al Duce, emergono motivazioni in qualche misura sorprendenti.
Per prima cosa c'è da rilevare l'atteggiamento tedesco nei confronti dell'Italia, che seguiva una direttiva costante. Il desiderio di trovare uno sbocco nell'Adriatico era antico, e già nel 1878 il cancelliere von Bismark aveva promosso a Berlino la conferenza delle potenze europee per decidere la spartizione dei Balcani e le aree d'influenza nel Mediterraneo.
Appena undici giorni dopo l'invasione tedesca della Polonia, avvenuta l'1 settembre 1939, il diplomatico tedesco Karl Clodius faceva sapere che la Germania desiderava rinviare a dopo la guerra il rimpatrio della minoranza tedesca in Alto Adige, suscitando pesanti interrogativi negli Italiani. Appena tre giorni prima, l'ambasciatore d'Ungheria a Roma, che aveva il curioso nome italiano di Federico Villani, aveva riferito a Mussolini che a Vienna i Tedeschi cantavano una canzone che diceva: «Quello che abbiamo lo teniamo stretto (si riferivano ai Sudeti, alla Cecoslovacchia, alla Polonia) e domani andremo a Trieste».
Ciano riferisce che il capo del governo ne rimase impressionato e, nel colloquio riservato che ebbe con lui, mentre stigmatizzava violentemente il comportamento tedesco, dettò la direttiva di mantenere in politica estera un atteggiamento prudente «perché la vittoria tedesca non è da escludersi».
A metà ottobre 1939, quando le trattative per l'esodo dall'Alto Adige sembravano definite, i Tedeschi crearono nuove difficoltà, chiedendo differimenti. Era un atteggiamento dilatorio, perché si sapeva che in quei giorni i Tedeschi, su richiesta degli "alleati" sovietici, avevano trasferito in meno di una giornata ben ottantamila uomini dagli stati del Baltico assegnati alla Russia col patto Ribbentropp-Molotov.
Di fronte a quella situazione l'Italia non rimase inerte. Mussolini aveva ordinato di distribuire grossi finanziamenti ai movimenti croati che aspiravano all'autonomia dalla Jugoslavia e già erano sorti gravi contrasti tra i soldati croati e gli ufficiali, in gran parte di etnia serba. Dal 1938 gli Italiani pensavano di incunearsi militarmente nella zona, cercando un accordo con gli Anglo-francesi, al fine di realizzare uno sbarramento contro possibili espansioni tedesche o sovietiche verso l'Adriatico, che nei piani delle forze armate italiane doveva rimanere precluso. Questa era però una politica pericolosa, che poteva attuarsi soltanto rimanendo alleati della Germania, che ancora a fine novembre 1939 chiedeva un plebiscito per sapere chi sceglieva il rimpatrio.
Mussolini, di fronte all'ennesima complicazione, ne rimase indignato e dispose immediatamente nella regione il rafforzamento delle forze di polizia, dei carabinieri e della guardia alla frontiera, affermando, in una dichiarazione che Ciano affidò al suo "Diario", di non vederci chiaro e che «su questa questione si potrebbe arrivare al conflitto col Reich».
Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Alla fine di novembre 1939, lo Statthalter (governatore, una sorta di prefetto) di Dresda, nel corso di un banchetto al quale partecipava anche il console italiano, che ne informò Roma, aveva affermato che la Germania, più ancora dei nemici, doveva temere gli amici che la tradivano, con chiaro riferimento al mancato ingresso in guerra dell'Italia malgrado il Patto d'Acciaio, che del resto non l'obbligava affatto a prendere le armi, posto che la Germania non era stata aggredita, ma, semmai, era l'aggressore della Polonia.
L'ambasciatore tedesco in Italia, Hans Georg von Mackensen aveva tentato di scusare il funzionario, dicendo che evidentemente l'alcool aveva fatto un brutto effetto, ma il Duce ancora una volta si era allarmato. Qualche giorno dopo aveva quindi approvato il testo del discorso che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano avrebbe pronunciato alla Camera: sviluppato su un'inappuntabile conferma dell'alleanza italo-tedesca, in realtà conteneva abili e sottili passaggi contro la politica aggressiva della Germania e contro la politica del fatto compiuto con la quale la Germania "onorava" l'alleanza politica e militare con l'Italia.
«Gli Italiani, più intelligenti di tutti, hanno capito appieno il mio latino e considerano il discorso il vero funerale dell'Asse», annotò Ciano. Meno pronto a capire il "latino" era stato l'ambasciatore di Francia, Fran?ois Poncet, mentre compresero benissimo governo e stampa inglese, che riservarono una discreta attenzione all'avvenimento.
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