EXCALIBUR 68 - marzo 2012
nello Speciale...

La deposizione di Pattarozzi

Riprendiamo adesso le vicende del tribunale di Terni, ove, nel corso del 1945, il giudice istruttore Giovanni Taglienti aveva interrogato tutti gli imputati eccetto Pattarozzi.
A questo punto un altro colpo di scena: «Inaspettatamente, il 21 ottobre 1946, si presentò (Pattarozzi, n.d.r.) al suo ufficio (del giudice istruttore, n.d.r.) accompagnato da un brigadiere dei carabinieri e dal capitano Anzil [...]. L'ufficiale americano intervenne per precisare che il prigioniero era stato accompagnato dal giudice soltanto per essere interrogato e non per essere consegnato alla magistratura italiana [...]. L'imputato affermò che avrebbe voluto presentarsi prima per difendersi, ma non aveva potuto ottenere il relativo permesso da parte delle autorità militari alleate».
Nel corso dell'interrogatorio Pattarozzi, ribadì quanto già scritto nella memoria difensiva dell'Avv. Uras.
Aggiunse che «si era recato ad Alviano il giorno 12 marzo 1944 per impedire che i paracadutisti comandati dal maggiore tedesco Schweigher incendiassero l'intero paese [...]. Avrebbe anche ottenuto che le persone arrestate fossero consegnate a lui e non portate a Sangemini al comando tedesco. Una volta condotti al commissariato di Amelia, gli Alvianesi non sarebbero stati seviziati, anche se alcuni di loro subirono percosse da parte dell'agente ausiliario Nello Barbaccia, il quale, trovandosi di fronte a chi aveva ucciso suo cognato Luigi Senise, aveva perso, per un momento, "la sua abituale calma e serenità". Purtroppo, dato che anche gli altri agenti erano "eccitati per i fatti di Alviano", qualche "eccesso" nei confronti dei detenuti ci sarebbe stato, ma da lui "non voluto e sempre deprecato". Pattarozzi ammise di aver detto ad alcuni detenuti che sarebbero stati fucilati. Con questo sistema (e non con le sevizie) disse di essere venuto a sapere che il movente dell'uccisione di Pietro Manunta sarebbero stati soltanto i soldi [...]. Ne sarebbe stata decisa la soppressione dopo che i suoi aguzzini ebbero incassato dalla moglie una somma di danaro e altri oggetti come prezzo della sua liberazione. Al termine dell'interrogatorio Gaetano Pattarozzi volle che fosse verbalizzata la seguente dichiarazione: "Ho agito sempre in buona fede per puro spirito di italianità e ritenendo di ubbidire al governo legittimo. Non ho mai collaborato con i Tedeschi [...]. A questo proposito tengo a precisare che il 26 maggio del 1944 venni arrestato dai Tedeschi e trasferito al carcere di Perugia [...]. venni condannato a morte dal tribunale militare tedesco di Perugia per sabotaggio, essendomi rifiutato di obbedire ai loro ordini, e per aver bastonato un ufficiale tedesco. Contro questa sentenza feci ricorso al maresciallo Kesserling; nelle more del ricorso precipitarono gli eventi, così potei ottenere la libertà. Esibisco alla S.V. in visione il Mod. 43, rilasciatomi dal direttore delle carceri di Perugia e attestante la mia detenzione in detto periodo».
Marcellini esprime molti dubbi sulla deposizione di Pattarozzi, eppure non può fare a meno di ammettere che «comunque per alcune sue affermazioni vi erano dei riscontri oggettivi. Era innegabile, infatti, che nonostante fossero stati individuati coloro che avevano ucciso Pietro Manunta, nessuno di costoro era stato fucilato dai fascisti. Anche la circostanza del suo arresto da parte dei Tedeschi trova conferma nella dichiarazione scritta del direttore dell'Istituto salesiano».
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