EXCALIBUR 76 - febbraio 2014
in questo numero

Nebraska: un film di Alexander Payne

L'America rurale esplorata con gli occhi disincantati di un bravo regista

di Lorenzo Uccheddu
Locandina del film "Nebraska"
Woody Grant, anziano alcolista e reduce di guerra, è determinato a raggiungere la città di Lincoln, in Nebraska, a costo di arrivarci a piedi: secondo una lettera che ha ricevuto, gli basterà presentarsi alle poste per ricevere un premio da un milione di dollari. La famiglia tenta invano di spiegargli che si tratta di una truffa, finché, dopo l'ennesimo tentativo di fuga, il figlio David decide di assecondarlo e portarlo a destinazione, se non altro perché possa superare la sua ossessione.
Inizia così un'esplorazione dell'America tradizionale, con le sue decadenti aree rurali immerse nell'infinito silenzio del deserto, a cui corrisponde un'esplorazione della sensibilità dei protagonisti, il cui rapporto rappresenta il cuore pulsante della pellicola. La stessa natura impenetrabile e arida delle grandi pianure, enfatizzata da un uso sapiente del bianco e nero, si ritrova nei suoi abitanti, abituati a considerare l'emozione come una debolezza; tra questi, l'enigmatico e contradditorio Woody, interpretato da un Bruce Dern capace di dominare ogni scena con disinvoltura.
Nonostante l'enfasi sull'introspezione psicologica, il film rispetta i canoni di leggerezza tipici della produzione americana, risultando sempre scorrevole e di piacevole visione. Lo sceneggiatore è in grado di dosare elementi comici e drammatici con la precisione di un alchimista, facendo in modo che i primi, rappresentati da sprazzi di pungente ironia e velata satira sociale, non vadano a intaccare l'efficacia dei secondi.
La ricerca di un significato da attribuire ai monosillabi, ai silenzi e ai volti inespressivi, incastonati nel paesaggio arido e piatto, riportano alla mente le atmosfere sospese di Paris, Texas, del quale Payne ha certamente tenuto conto come modello. Se Nebraska non raggiunge le stesse vette di lirismo del capolavoro di Wim Wenders, però, è proprio per la sua totale concentrazione sul tema centrale, che finisce per tradursi in una certa disattenzione per i vari elementi periferici della narrazione: di questa soffre soprattutto la caratterizzazione dei personaggi secondari, ridotti per lo più a macchiette bidimensionali.
Il tema del riallacciamento del rapporto padre-figlio è affrontata con grande modernità, e non esita anche a indagarne i lati paradossali tipici dell'età contemporanea: col sopraggiungere di un'età sempre più avanzata, agli occhi del figlio il padre appare ancora come figura dominante e saggia, eppure allo stesso tempo è lui a dover vegliare sulla sua salute, soddisfare i suoi bisogni e persino accondiscendere ai suoi capricci, in un parziale capovolgimento dei ruoli che non lascia spazio a nessuna semplice risoluzione.
Non c'è conciliazione possibile dei due aspetti, se non nell'accettazione di un compromesso che si realizza nei brevi e fugaci istanti in cui si è in grado di riconoscersi non come dicotomia padre-figlio o vecchio-giovane, ma come rappresentanti della stessa natura umana che accomuna, come ha sempre fatto, qualsiasi generazione di ogni epoca.
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