EXCALIBUR 77 - marzo 2014
in questo numero

Quale Europa?

La esclusiva prevalenza dell'economia ha cancellato il concetto di democrazia

di Paola Musu
Sopra: Europa, ormai sigle incomprensibili hanno preso il luogo degli Stati sovrani
Sotto: riprendiamoci la nostra sovranità
L'originario "sogno" dell'Europa, nasce nell'ambito della cornice confederalista (cooperazione tra Stati mediante accordi tra essi, nel pieno rispetto dei popoli, delle rispettive nazioni e della sovranità degli stessi), che fu quella, tra le tre "anime" di pensiero, ad avere la prevalenza al momento della sua originaria formazione e che dominò il percorso della stessa, salvo alcuni "cedimenti", almeno sino alla sottoscrizione dell'Atto Unico Europeo.
Quello che è avvenuto dopo è ben lontano da quel "sogno" originario: già nel giugno del 1997, in prossimità della firma del Trattato di Amsterdam e a ridosso della sottoscrizione dei Regolamenti nn. 1466 e 1467 del luglio 1997 (più tristemente noti come "Patto di Stabilità e Crescita"), un centinaio di economisti europei sottoscrivevano un documento unico, in cui, preconizzandone con estrema chiarezza e lungimiranza il fallimento, rilevavano l'inconsistenza empirica dei pilastri su cui si è preteso di fondare l'unione monetaria europea (Uem) (riduzione dei disavanzi di bilancio = minore inflazione = crescita più sostenuta = maggiore occupazione), richiamando a supporto proprio gli studi di economisti come Akelorf, Dickens e Perry (1996), Barro (1995), Bruno (1995), Sarel (1996) e Stanners (1995).
L'ideologico presupposto su cui sono stati costruiti i Trattati comunitari da Maastricht in poi e gli atti normativi europei correlati si fonda sull'idea secondo cui il modello efficace per conseguire la crescita economica deve fondarsi sul "libero agire delle forze di mercato", supportate dal coordinamento delle politiche monetarie ispirate al solo obiettivo di scongiurare i rischi di inflazione, conformemente al dettato dell'approccio "monetaristico".
La politica monetaria, e con essa, in definitiva, tutta la politica stessa - in aperta violazione dei princìpi di democrazia, sovranità popolare e della forma repubblicana dello Stato italiano (e richiamo qui l'art. 139 della nostra Costituzione) - è stata sottratta al controllo delle sedi rappresentative - sia nazionali che sovranazionali - per conseguire, senza alcun impedimento, l'obiettivo della lotta all'inflazione, ritenuto indispensabile per affrontare la competizione nei mercati internazionali, elevata a dogma, e per ottenere una pretesa allocazione adeguata delle risorse.
Nel contesto della disciplina introdotta dai Trattati, la Bce, in base al principio di indipendenza (art. 130 Tfue, già art. 108 Tce), non risponde del suo operato di fronte a nessuna assemblea rappresentativa, ma dispone di poteri regolamentari, decisionali e consultivi (art. 132 Tfue, già art. 110 Tce), con cui impone o sollecita l'adozione di indirizzi finalizzati a garantire la stabilità, così come concepita nel contesto dei trattati.
Essa è stata dotata degli strumenti necessari per combattere l'inflazione, ma non dispone di alcuno strumento per combattere la recessione e la disoccupazione. La Bce e le banche centrali nazionali non possono finanziare gli enti pubblici o gli organismi statali (art. 123 Tfue, già art. 101 Tce), che restano pertanto privi dei canali di finanziamento necessari allo svolgimento delle politiche sociali e degli strumenti essenziali attraverso cui dare attuazione alle garanzie costituzionali, costringendoli a finanziarsi sui mercati dei capitali, con grande vantaggio per le istituzioni della rendita finanziaria.
Il funzionamento dell'euro impedisce, inoltre, la possibilità di effettuare svalutazioni competitive, privando, quindi, i Paesi membri - specie quelli più deboli - di una risorsa essenziale per la crescita, col rischio di accrescere il loro differenziale e di provocare una "mezzogiornificazione" dell'Europa.
Inoltre, l'organismo Sebc-Bce (Sistema Europeo delle Banche Centrali - Banca Centrale Europea) svolge il proprio governo prettamente nell'area della politica monetaria; tuttavia le sue prescrizioni unilaterali, per espressa previsione dei trattati, condizionano, in modo assoluto, anche lo svolgimento delle politiche economiche e sociali, con l'apposizione di vincoli talmente stringenti da privare, di fatto, gli Stati di qualsiasi potere di intervento e con gravissima compromissione dei cardini del funzionamento della democrazia, specie nella forma repubblicana della stessa (ricordo ancora l'art. 139 della nostra Costituzione, il quale prevede che la forma repubblicana dello Stato non è modificabile).
Ma nel testo costituzionale italiano, nella parte inerente i rapporti economici, in cui sono definiti i tratti essenziali del rapporto tra Stato e sistema economico-produttivo, non appare mai il termine "concorrenza".
La concorrenza e il libero mercato non vengono trattati dal legislatore costituente come valori in sé da difendere, essendo considerate implicitamente null'altro che modalità specifiche (e non univoche) di funzionamento di un sistema economico. Al contrario, si fa esplicito richiamo al termine "programmazione", che, unito al riferimento al "coordinamento a fini sociali", descrive in maniera chiara l'ispirazione sostanziale della politica economica nazionale del primo trentennio post-bellico.
Tale programmazione, stando al dettato costituzionale, poteva avvenire anche attraverso la limitazione o l'eliminazione della libera concorrenza, affidando, ad esempio, l'esclusiva della produzione, in determinati ambiti del sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale). Laddove non eliminata (tramite il monopolio legale), la concorrenza agisce e viene costituzionalmente concepita, per lo più, come forza da limitare istituzionalmente, proprio al fine di evitare alcuni fenomeni ritenuti indesiderabili, quali: l'eccessiva concentrazione del capitale (favorita proprio dall'azione della competizione libera); la perdita di professionalizzazione dei mestieri; determinate forme di destabilizzazione del sistema economico; la denazionalizzazione del capitale.
Tutti fenomeni cui stiamo tristemente assistendo da almeno un ventennio di politiche improntate all'insegna del dictat «ce lo chiede l'Europa».
Si tratta indiscutibilmente di un quadro, quello delineato dalla nostra Costituzione, che confligge in maniera stridente con il testo e lo spirito dei trattati e della normativa comunitaria.
Quanto sopra, ricordato che, se il nostro diritto interno è cedevole di fronte al diritto comunitario, quest'ultimo non può derogare o superare «i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona». Regola, questa, affermata dalla Corte Costituzionale sin dal 1984 e ribadita, poi, successivamente, con varie pronunce, anche, da ultimo, con sentenza del 2007.
Ma c'è, in realtà, di più: l'Europa non è uno Stato. L'Italia, di contro, è uno Stato, più precisamente è uno Stato sovrano.
Il fatto contingente che abbia al momento "sospeso" l'esercizio pieno della sua sovranità, accettando i vincoli "europei", non le impedisce di riprendersi in qualsiasi momento, nella loro pienezza, i propri poteri sovrani. Questo potere deriva all'Italia proprio dalla sua natura giuridica di "Stato sovrano".
Il concetto giuridico di Stato Sovrano ha le sue origini nel Trattato di Vestfalia: siamo alla metà del 1600, alla fine della guerra dei trent'anni. Lo Stato sovrano, in quanto tale, è quel soggetto giuridico di diritto internazionale che non riconosce al di sopra di sé alcuna autorità, né alcun soggetto. In tale contesto giuridico è principio fondamentale di diritto internazionale, universalmente riconosciuto e tale da essere ricompreso nel c.d. "jus gentium", quello in base al quale i trattati producono i loro effetti solo se e fintanto che permangono le condizioni nel contesto delle quali essi sono stati sottoscritti. Venendo meno le stesse, non c'è nulla che può impedire a uno Stato di recedere dagli stessi o, come anche si usa dire, "denunciare" quei trattati. La storia diplomatica è piena di esempi di tal fatta ed è noto agli ambienti il famoso detto bismarckiano «I trattati sono fatti per essere violati».
Questo principio, fondamentale, dovrebbe oggi essere seriamente valutato da chiunque abbia in mano le redini del potere politico, perché in quel principio supremo sta la scelta risolutiva e non, piuttosto, nel preteso "salvifico" epilogo verso un forzato stato federale, con non ben identificati squilibri di forza in favore di alcuni stati soltanto e a danno di altri e che, tuttavia, per forza di cose, si stanno comunque andando a delineare, con il Sud Europa chiaramente in svantaggio.
Come dissero quegli economisti nel 1997, «in gioco è la democrazia» e il diritto dei popoli europei "ad un'economia che sia al servizio degli esseri umani".
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