EXCALIBUR 77 - marzo 2014
in questo numero

12 anni schiavo: un film di Steve McQueen

Una visione raffinata del problema americano da parte di un britannico

di Lorenzo Uccheddu
Tre Oscar per il film di Steve McQueen: miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior attrice non protagonista
Gli Academy Awards, chiamati più semplicemente "Oscar" nella nostra penisola, non sono ovviamente gli unici riconoscimenti che vengono assegnati ogni anno alle eccellenze cinematografiche, ma sono, al di là di ogni polemica, i più importanti. Per quanto la Palma di Cannes, l'Orso di Berlino e il Leone di Venezia possano avere la loro importanza nel mondo europeo, nessuno di questi premi raggiunge lo stesso peso culturale, nè tantomeno la stessa risonanza mediatica.
Ciò non significa, naturalmente, che per l'autorevolezza del premio dovremmo dimenticarci dei suoi limiti: il primo, e più evidente, è che si rivolge unicamente alla produzione americana, relegando tutto il resto del mondo a un singolo premio al miglior film straniero; la seconda critica che più comunemente gli viene mossa è che la commissione che giudica i film in concorso, composta da più di 6.000 esperti del settore, è palesemente inadeguata a rappresentare la popolazione nazionale, essendo formata per il 94% da bianchi e per il 76% da uomini, con un'età media intorno ai 63 anni. Oltre a questi fattori concreti, poi, se ne aggiungono altri più astratti, ma che risultano evidenti guardando i vincitori sul lungo periodo: vuoi per la composizione della giuria, per l'ampio numero di votanti o per un senso conservatore ispirato dall'autorevolezza stessa del premio, gli Academy sembrano sempre preferire film che siano solidi ma poco innovatori, il più simili possibile ai vincitori precedenti. Non è raro che il vincitore di un Oscar cada nel dimenticatoio dopo pochi anni, mentre film più provocativi e sperimentali vengano snobbati dalla Commissione e poi ricordati come pietre miliari della cinematografia negli anni a venire (un esempio tra tutti: "Pulp Fiction" del '94, ma potremmo anche dire "The Tree of Life" di tre anni fa).
Tenuto conto di questa premessa, quindi, è facile guardare agli Oscar con un certo distaccato cinismo, ma è, di fatto, impossibile ignorarli. È questo senso di sfiducia che ha portato la maggior parte degli analisti a nominare come favorito di quest'anno "American Hustle", giudicato da molte voci valido ma scialbo, e lo stesso senso di sfiducia ha portato a pensare che "12 Anni Schiavo" fosse destinato a tornare a casa a mani vuote.
Come sappiamo, così non è stato: nello stupore generale, "12 Anni Schiavo" ha portato a casa tre statuette (miglior film, sceneggiatura non originale e attrice non protagonista), mentre "American Hustle" non ha concretizzato nessuna delle sue dieci nomination. Insomma, per una volta buona parte dei critici hanno apprezzato la scelta della Commissione e io non mi sono pentito di essere rimasto a seguire la diretta fino alle sei del mattino.
Dunque, cos'è "12 Anni Schiavo", e perché ha meritato la vittoria?
Il film è diretto dal britannico Steve McQueen, già autore dell'acclamato "Shame", che nonostante il nome non ha nulla a che fare col più famoso attore degli anni '60. La drammaticità degli eventi rappresentati lascia ampio spazio agli attori, che in più occasioni spiccano per eccezionale talento: ottimi il protagonista Chiwetel Ejiofor e Micheal Fassbender, oltre ovviamente all'ultraesordiente a giustamente premiata Lupita Nyong'o, in un ruolo marginale ma indimenticabile.
La narrazione segue la vicenda di Solomon Northup, violinista di colore che conduce una vita serena a Washington, da quando viene rapito e venduto come schiavo in Georgia per tutta la durata della schiavitù. Mentre passa da un padrone all'altro, subendo fatiche e umiliazioni sempre più insostenibili, la prova di Solomon (disumanamente ribattezzato "Platt") si configura non tanto come una banale lotta per la sopravvivenza, quanto per il mantenimento della propria umanità, identità e memoria, nonostante il miraggio di un ritorno alla libertà si faccia sempre più sfumato.
Ciò che contraddistingue "12 Anni Schiavo" da altre produzioni che trattano lo stesso tema è la sua aura di autenticità, che pervade ogni aspetto della pellicola: dall'attenzione alle scenografie, alla contestualizzazione storica della psicologia dei personaggi, persino alle variazioni linguistiche e alle influenze dialettali nel parlato, frutto di un minuzioso lavoro di filologia.
La stessa storia di Solomon, d'altra parte, non è inventata, ma è tratta dall'omonima autobiografia del 1853, poco prima della Guerra di Secessione. Se confrontiamo questo con altri film sul tema, come "Django Unchained" dell'anno scorso, è facile vedere come una tale attenzione per la veridicità storica costituisca un atto di censura rispetto al passato, che pone "12 Anni Schiavo" come un'opera innovatrice e rischiosa.
Ma non solo: ciò che cambia non è esclusivamente la lente utilizzata, ma anche l'oggetto osservato: come si può capire il fenomeno dello schiavismo parlando solo di bianchi, come ha fatto il "Lincoln" del 2012?
Rendere giustizia al tema significa raccontare le storie sepolte, dare spazio alle voci soffocate, rompere con la tradizione tutta americana di concedere le luci della ribalta a una minoranza oppressa solo attraverso un protagonista totalmente esterno alla minoranza stessa (si pensi a "Balla coi Lupi", a "L'Ultimo Samurai" o anche, metaforicamente, ad "Avatar").
Non è una coincidenza, chiaramente, che tutti i film che ho citato sono prodotti e realizzati da bianchi, mentre "12 Anni Schiavo" vanta uno sceneggiatore, un regista e pure un cast quasi interamente di colore.
Fa eccezione Brad Pitt, anche produttore della pellicola, che ha fatto in modo di ritagliarsi un ruolo da deus ex machina verso il finale.
Infine, si tratta di un film che evita stereotipi e semplificazioni, ponendo l'accento sul quotidiano, gli eventi considerati comuni nel contesto storico, ma che, per lo spettatore contemporaneo, risultano impressionanti ("la banalità del male", avrebbe detto qualcuno).
Vedere che una produzione di tale raffinatezza è riuscita non solo ad accedere agli Oscar, ma anche a vincere il premio principale, porta a sperare in un futuro in cui non sia più così raro che un paese racconti i peccati originali della propria storia con obiettività e saggezza, senza facili sentimentalismi e senza angeli nè demoni.
Forse non sarà mai la regola, ma se pubblico e critica continueranno a fare scelte intelligenti, potrebbe diventare un'eccezione sempre più comune.
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