EXCALIBUR 81 - ottobre 2014
in questo numero

Isis, Obama e la sindrome del 2 maggio 2011

Le strane guerre del premio Nobel per la Pace

di Angelo Marongiu
Sopra: la strategia dell'Isis è creare una rete di "regioni della violenza" dalle quali le forze statali si dovrebbero ritirare; sotto il dominio del califfato dovrebbe rientrare ogni terra nella quale l'Islam ha piantato la sua bandiera
Sotto: quanto sta accadendo è il risultato dell'indecisione di Obama
Abu-Bakr, Omar, Uthmar, Ali sono ricordati nel mondo musulmano come "i quattro califfi ben guidati". Il loro periodo coincide con quello della costante espansione dell'Islam, dalla conquista dell'Egitto alle vittorie sui bizantini. Ma è soprattutto il periodo di unità dell'Islam: termina nel 661 con l'assassinio di Ali e l'inizio della prima guerra civile e con il massacro di Husayn e degli Alidi a Kerbala, nel 680, inizio della seconda guerra civile e dell'insanabile frattura tra sunniti e sciiti che tuttora continua.
Questo periodo è ricordato come l'età dell'oro dell'Islam, che spazza via gli imperi rivali di Bisanzio e della Persia e si insedia stabilmente nella regione mediorientale e comincia la sua espansione a oriente verso l'India e a occidente verso il Nord Africa e l'Europa.
Il 29 giugno scorso i militanti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis) hanno annunciato la "ricostituzione del califfato" nell'area da loro controllata e che il nuovo leader è Abu Bakr al-Baghdadi, chiamato "califfo Ibrahim" dal suo primo nome.
"Califfo" in arabo significa "successore" ed è appunto il titolo attribuito al successore di Maometto: questa attribuzione non è certamente casuale in una comunità nella quale la prassi e la tradizione costituiscono valori fondamentali, considerando che la ricostituzione del Califfato e l'unione politica (non solo religiosa) dell'Islam ricorre costantemente nei progetti e nelle visioni mediorientali.
Nella stampa occidentale l'annuncio del nuovo califfato ha destato meraviglia, ma ci siamo dimenticati che l'Isis (con altro nome ma con medesimo fine) venne fondata nel 2000 da Abu Musab al-Zarkawi con l'intento appunto di creare un califfato islamico esclusivamente sunnita sul modello dei primi califfi della storia. Zarkawi fu ucciso da una bomba americana nel 2006, il suo successore fu Abu Omar al-Baghdadi, morto nel 2010 e il suo posto fu infine preso da Abu Bakr al-Baghdadi, colui che appunto è stato proclamato leader politico e religioso dei musulmani di tutto il mondo.
È un momento cruciale per la galassia internazionale dei gruppi jihadisti: tutti quelli legati ad al-Qaeda e quelli indipendenti dovranno decidere se appoggiare o meno lo stato islamico e quindi sottomettersi al suo comando. Se tutte queste organizzazioni si sono definite "gruppi", l'Isis definisce sé stesso come "stato". Usa metodi così violenti che anche al-Qaeda ne ha preso le distanze.
È comunque una storia complessa e contradditoria, scorrendo la quale si scoprono le ingenuità e le assurdità della strategia occidentale e americana in particolare.
Già nel 2004 un libro scritto dallo stratega jihadista Abu Bakr al Naji spiegava piuttosto bene la strategia di Zarkawi: creare una rete di "regioni della violenza" nelle quali le forze statali si sarebbero ritirate sfibrate dagli attacchi continui e in cui la popolazione locale si sarebbe giocoforza sottomessa alle forze islamiche occupanti.
Questa strategia - che vedeva accomunati al-Qaeda di Bin Laden e l'Isis di Zarkawi - andò avanti fino al 2007, quando gli Stati Uniti di Bush misero in campo la strategia di "counter-insurgency" del generale Petraeus. Strategia basata sulla stretta collaborazione con le tribù sunnite locali che non sopportavano l'estremismo di al-Qaeda.
L'arrivo di Obama e la sua politica della mano tesa, la rimozione di Petraeus e l'appoggio senza riserve al primo ministro iracheno, lo sciita Nuri al-Maliki, ha reso inapplicabile qualsiasi possibilità di collaborazione con le tribù sunnite a causa delle politiche violente e settarie perseguite da al-Maliki sotto gli occhi indifferenti degli Stati Uniti.
Ancora adesso le ambizioni dell'Isis sono sottovalutate; il fatto di includere la regione del Levante nel nome dello stato indica l'area di espansione del califfato: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro. Ma non solo: per quanto ancora confusi e forse anche presuntuosi, gli obiettivi comprendono anche il Nord Africa (e quanto avviene in Libia ne è la conferma - altro regalo dell'Occidente al caos islamico), ma, come nei sogni di ogni musulmano credente, sotto il dominio del califfato dovrebbe rientrare ogni terra nella quale l'Islam ha piantato la sua bandiera nera, Spagna compresa.
Ciò che avviene in questi mesi ha colto di sorpresa l'ignaro mondo occidentale e ciò che inorridisce maggiormente i media sono le decapitazioni di ostaggi occidentali. Ma segnali di barbarie ce ne sono diversi.
Nel 645 il secondo califfo, Omar, fece radere al suolo la biblioteca di Alessandria perché «o i libri che stanno qui sono conformi al Corano e quindi inutili o non sono conformi al Corano e quindi vanno distrutti».
Al-Baghdadi ha lanciato la sua "fatwa" contro i patrimoni dell'umanità che ha definito "falsi idoli" e quindi vestigia vecchie anche di cinquemila anni sono in pericolo. La "chiesa verde" di Tikrit, simbolo del cristianesimo assiro del VII secolo e lo stesso castello dove nacque il Saladino, sono stati rasi al suolo. E così il palazzo di Kalhu del re assiro Assurnasipal, il sito archeologico di Hatra, capitale dei Parti, le vestigia non islamiche di Mosul, libri, manoscritti antichi bruciati nelle piazze, i templi yazidi, le statue di Ajaja, le moschee sciite, l'antica chiesa armena di Der Zor e poi i cristiani sgozzati a Ak Hissar, il massacro di madri e figli della scuola tedesca di Aleppo, gli orfani del Caucaso buttati nel fiume, i 500 yazidi sepolti vivi.
«Gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam, una grande religione». Barack Husein Obama tende sempre a giustificare le sue azioni dirette verso frange di quel mondo: l'intervento militare come capo di una coalizione, ha sottolineato, è diretto a estirpare il "cancro" dell'Isis. Certo, la coalizione non è in guerra con l'Islam - è abbastanza ovvio - ma contro uno scisma dell'Islam, un Califfato che ha un innegabile spessore religioso datato da secoli. Non fa altro, Baghdadi, che applicare la più tradizionale e millenaria legge dell'Islam - la "sharia" - nella sua versione più estrema, quella hanbalita, cioè la stessa, con meno orrore forse, applicata in Arabia Saudita.
Obama ha fatto "mea culpa" su alcuni errori di valutazione: «l'intelligence ha sottostimato ciò che stava accadendo in Siria». Ma il New York Times, in un articolo di fuoco, rivela che già lo scorso anno numerosi rapporti top secret dell'intelligence americana descrivevano un quadro allarmante, cui la Casa Bianca «non dedicò loro particolare attenzione». Erano occupati con altre crisi e la questione per loro «semplicemente non era una gran priorità».
Erano anche inascoltati gli allarmi di Brett McGurk, vice segretario di Stato per l'Iraq e l'Iran (novembre 2013), del generale Michael Flynn, direttore dell'intelligence della Difesa (febbraio 2014), dello stesso premier Nuri al-Maliki (maggio 2014). Solo la presa di Mosul, seconda città dell'Iraq, ha svegliato la Casa Bianca.
Obama è rimasto imprigionato nella sua promessa "mai più guerre", specie in Medio Oriente, e dal ritiro dall'Iraq e dall'Afghanistan, dal suo voler esercitare una leadership "da lontano" e dal suo disimpegno dall'essere "sceriffi" dell'ordine mondiale.
Ma c'è chi insinua che Obama sia invece caduto in una trappola dell'Isis tesa per indurlo a intervenire, nella speranza che una "lunga guerra" avrebbe eroso il suo consenso e favorito la legittimità del Califfato agli occhi delle masse musulmane, ormai in gran parte anti-americane.
Alcune domande sono legittime: perché per bombardare Assad in Siria ha tracciato innumerevoli "linee rosse" a suo giudizio invalicabili che Assad ha continuamente superato senza conseguenze? Per bombardare la Siria ha sostenuto che era necessaria l'autorizzazione del Congresso - autorizzazione che non ha mai chiesto come se temesse un rifiuto. Ora, definendo che ciò che vuol fare non è una guerra, ma un'operazione antiterroristica, estesa dall'Iraq alla Siria, passa ai fatti senza richiedere nessuna autorizzazione. Non ha neanche chiarito quale sia la minaccia che l'Isis rappresenta per gli Stati Uniti, trincerandosi dietro una doverosa assistenza all'Iraq con il quale esiste un impegno per garantirne la sicurezza.
E mette in campo la "sua" strategia - bombardamenti aerei, addestramento, aiuti militari e altro - ispirata a quanto fatto in Somalia e nello Yemen, con gli esiti che tutti conoscono.
Si arriva al paradosso di ignoranza quando, in un dispaccio del Pentagono, si legge di otto raid aerei a Kobane e, più avanti, quattro attacchi ad Ayn al Arab: ma Kobane e Ayn al Arab sono la stessa città, la prima in curdo e la seconda con il nome imposto da Assad. Ma sono la stessa città. Grande strategia!
Mai tenero con Obama, il Wall Street Journal gli ha suggerito perfidamente di chiedere consiglio a George W. Bush.
Abu Bakr al-Baghdadi, già Abu Du'a, già Ibrahim al Badri, era stato detenuto nel Camp Bucca in Iraq come "internato speciale", dai febbraio 2004 fino al 2009, quando fu rimesso in libertà dalla commissione "Combined Review and Release Board", che ne raccomandò il "rilascio immediato" tra lo stupore del generale Kenneth King, comandante del campo.
Perché? Forse per combattere contro Assad? Nell'ottobre 2011 sul suo capo venne posta una taglia di 10 milioni di dollari.
Ora è il nuovo Califfo.
Quanto sta accadendo è il risultato dell'indecisione, è il fallimento di una politica voluta, perché non agire è una decisione. Non decidere è una scelta politica.
L'America ha perso molto da quando Bob Gates e Leon Panetta hanno lasciato l'amministrazione Obama. Panetta, ex capo della Cia e del Pentagono ha sostenuto che Obama ha lasciato l'Iraq troppo in fretta («penso fosse importante per noi mantenere una presenza in Iraq») e che la resistenza siriana non è stata sufficientemente sostenuta. Bob Gates, anch'egli capo del Pentagono, ha mosso pesanti critiche a Obama quando ha escluso l'opzione "boots on the ground": se non saranno stivali americani dovranno essere stivali di qualche altro. Di chi? Della Turchia, forse?
L'età d'oro della politica estera americana sotto Obama - il primo mandato - vedeva Gates alla Difesa (poi Panetta), Panetta alla Cia (poi Petraeus), Hillary Clinton al Dipartimento di stato, Jones alla National Security Agency. In quel periodo Obama continuò la maggior parte delle politiche di controterrorismo di George W. Bush: ritardò il ritiro dall'Iraq, triplicò il numero di soldati in Afghanistan, aumentò gli strike dei droni in Pakistan. E tutto ciò anche in contrasto con la sua retorica elettorale.
Oggi Obama è supportato da Joe Biden, Chuck Hagel, John Kerry, Susan Rice e John Brennan, tutti nomi che non dicono nulla. Il più noto è John Kerry, famoso per i suoi insuccessi in Medio Oriente. Obama, come tutti gli intellettuali, è convinto della sua intelligenza "eccezionale" ed è restio ad accettare consigli che non siano in sintonia con il suo pensiero.
Ritiro delle truppe dall'Iraq e quindi nessuna pressione militare su Nouri al Maliki libero di sviluppare, sciita in accordo con l'Iran, una politica settaria contro i sunniti, incapacità di fornire aiuto all'opposizione siriana spostando indietro la "linea rossa" man mano che Assad andava oltre, pasticcio colossale e infame in Libia, contenzioso inutile e dannoso con Putin per l'Ucraina, riduzione delle spese militari, contrasti continui con Israele e infine assenza di strategia mentre le centrifughe iraniane marciano a tutto spiano. E ora la minaccia dell'Isis.
Qual è stato il momento del cambiamento di Obama e della sua strategia? Qualcuno individua nel 2 maggio 2011 - il giorno in cui Osama Bin Laden è stato ucciso - la linea di demarcazione tra i due Obama. Quell'indiscutibile successo ha convinto il premio Nobel per la Pace di essere in grado di gestire la politica estera da solo e di poter fronteggiare facilmente qualsiasi opposizione venisse dalla destra americana.
Da quel momento è iniziato il cambiamento della sua strategia: accelerazione del ritiro delle truppe dall'Afghanistan (con un miserevole rattoippo con il mantenimento di circa 10.000 soldati appena concordato), nessuna azione di stabilizzazione in Libia dopo aver contribuito ad abbattere Gheddafi, nessuna strategia in Siria.
Sarebbe paradossale se il punto di maggior splendore nella politica estera di Obama - la morte di Bin Laden - coincidesse con la caduta libera della sua politica estera.
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