EXCALIBUR 85 - febbraio 2015
in questo numero

Libia: "molto forte, incredibilmente vicino"

Un romanzo di Jonathan Safran Foer sull'11 settembre, con un titolo premonitore

di Lancillotto
Arrivano i miliziani dell'Isis nelle terre libiche...
... e si ripetono le stesse scene
No, il romanzo di Foer non ha nulla a che vedere con la Libia: racconta la storia di un bambino che ha perso il padre nella tragedia dell'11 settembre e - partendo da una chiave trovata in un vaso - va alla ricerca di un legame tra il passato doloroso della perdita e il presente da accettare.
Però ha un titolo intrigante e mi è venuto in mente osservando quanto sta accadendo dall'altra parte del Mediterraneo.
Ricordate il maggio del 2011, quando in un blitz americano fu ucciso Osama bin Laden? Sembrava la fine di al Qaeda e del terrorismo (islamico, noi possiamo ancora dirlo). Sono passati meno di cinque anni e se diamo uno sguardo a una cartina del mondo non può che venirci uno scoramento totale.
Nello Yemen imperversa ancora al Qaeda e le ambasciate occidentali sono state chiuse; in Somalia c'è Al Shabaab; in Pakistan e Afghanistan ci sono i Talebani; in Daghestan, Ossezia del Nord e Cecenia è stato proclamato l'Emirato del Caucaso; nelle Filippine c'è Abu Sayyaf; in Indonesia scorrazza indisturbato, anche se in piccole enclavi, il movimento Jemaah Islamiyah; in Siria e Iraq c'è ormai il Califfato Islamico; nel Maghreb al Qaeda continua a reclutare adepti; nel Mali c'è Ansar el Dine; in Nigeria c'è Boko Haram; in Libia e Tunisia c'è infine Ansar al Sharia. E forse ne ho dimenticato qualcuno.
Ma c'è un altro elemento che ci deve far riflettere, al di là di queste sigle più o meno folkloristiche, ma che comunque celebrano quotidianamente il loro rituale di morte.
Lo Yemen dista da noi circa 3.300 km, la Nigeria 2.500 km, la Siria 2.200 km, il Mali 2.000 km e così il Libano; l'Ucraina, altro punto caldo, 720 km. La Libia dista dalle nostre coste meno di 300 km.
Ecco, è questo il salto improvviso che quest'ondata di terrore e di distruzione ha compiuto nel giro di qualche mese.
Ed è per questo motivo che ciò che avviene in Libia suona, per noi, molto forte, incredibilmente vicino...
E allora?
Per Gentiloni è l'ora di un intervento militare, la Pinotti ha pronti 5.000 soldati: sembravamo pronti a salutare i nostri eroi con i fazzoletti bianchi e le fanfare, poi è arrivato il rallentamento di Renzi e poi la frenata brusca del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
In effetti, ora quando si parla di Libia bisogna distinguerne tre: una Libia sta a Tobruk e ha un governo riconosciuto internazionalmente, l'altra sta a Tripoli e infine ora ce n'è una terza controllata dalle milizie islamiste.
L'Onu ha invitato le prime due Libie, quella di Tobruk e di Tripoli, affinché trovino un accordo tra di loro e a questo scopo ha dato nuovi pieni poteri al suo inviato Bernardino Leon. &Egrande; una ripetizione dell'incarico avuto lo scorso settembre, quello di riportare un minimo di stabilità politica in Libia. Ma i suoi tentativi furono inutili: odi tribali di antichissima data, sabotatori interni ed esterni non hanno fatto altro che lasciare quel paese nel caos, una specie di guerra di tutti contro tutti.
E anche questo è un motivo che ha facilitato, in una terra senza autorità, l'avanzata delle truppe dell'Isis.
L'ex braccio destro di Josè Luis Zapatero punta a creare un governo di unità nazionale comprendente le due più importanti fazioni libiche, una moderata, quella di Tobruk, e l'altra di impronta islamica (non si sa ancora quanto accentuata) di Tripoli. Da notare che il governo "ufficiale" è costretto in esilio a Tobruk perché la fazione "parallela" islamista non ne riconosce la legittimità e si è insediata a Tripoli. Però, secondo le speranze dell'Onu, dovrebbero mettersi d'accordo.
Se Leon dovesse riuscire in quest'intento allora si può pensare al dispiegamento di una forza internazionale con l'obiettivo di controllare porti, aeroporti e ingressi nel paese.
Ma la difficoltà del compito è immane e tutti sembrano saperlo: la missione sembra solo un tentativo di prender tempo, non si sa bene per fare che cosa.
Decine di clan tribali, il centinaio di milizie pronte a vendersi al miglior offerente, sono lo sfondo di questa missione, per di più in un paese precipitato nel caos e con il crollo dell'economia che ormai morde tutti gli strati della popolazione.
E poi ci sono i capi militari delle due principali anime della Libia: a Tobruk c'è il generale Khalifa Haftar, che il suo stesso premier Al Thinni ha definito essere peggio di Gheddafi. A misurata c'è invece Salah Badi, che qualche tempo fa non ha esitato a bombardare uno degli aeroporti di Tripoli.
E il tempo alla fine non è poi tanto.
Resterà a quel punto solo l'opzione militare.
Opzione chiesta a gran voce dall'Egitto di al Sisi, che ha continuato a martellare i jihadisti dell'Isis con incursioni aere e anche via terra a Derna. Sempre l'Egitto ha insistito per la revoca dell'embargo sulle armi per il governo di Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale e ha anche chiesto un blocco navale lungo le coste dell'area nella quale opera l'Isis.
L'Italia, pur essendo il paese maggiormente esposto a questa minaccia, ha seguito miserevolmente questa specie di linea attendista. Alfano ha continuato a ribadire che non c'è nesso alcuno tra immigrazione e terrorismo, pur ammettendo che esiste una minaccia di infiltrazioni con i barconi di immigrati. Posizione ribadita anche a Washington durante il vertice internazionale contro l'estremismo.
Obama ha sottolineato ancora una volta che «non c'è uno scontro di civiltà» e che «i terroristi non parlano a nome di un miliardo di musulmani».
Nel frattempo quelli dell'Isis, che certo non si baloccano con queste sottigliezze linguistiche, insieme alle minacce folkloristiche di bandiere nere issate su San Pietro e sul Colosseo, continuano con i loro rituali di morte e sgozzano tranquilli i loro nemici.
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