Sopra: Cagliari, Parco della Rimembranza: il Monumento ai Caduti, opera di Ubaldo Badas, con le scritte sui pilastri che ricordano le battaglie dei Sardi
Sotto: monumento alla "Sassari" eretto presso la Trincea delle Frasche
«Ci siamo messi in marcia dal mezzo della dolina, davanti alla baracca del Comando di Brigata, vicino alla tomba di un ignoto, sotto la pioggia torrenziale; abbiamo salito il breve pendio, urtando tratto tratto in qualche cadavere, inciampando in qualche albero abbattuto. Abbiamo oltrepassato il bosco e siamo entrati nella zona scoperta. Buio pesto e acqua a catinelle! Siamo entrati nella zona in cui la morte era in agguato a ogni passo e a ogni istante. Abbiamo piegato a destra verso le posizioni tenute dal terzo battaglione del 151º, dove sul bordo di una dolina vi è una breve soluzione di continuità, dov'è il tratto dal quale avevo divisato di sortire, privo di qualsiasi elemento di trincea, senza un fosso, senza un riparo, senza neppure un sacco a terra. Avevo scelto quel punto per la nostra irruzione perché era il più vicino alla trincea nemica e aveva forma di una grande zeta che faceva spigolo, nella sua parte inferiore, sulla dolina, puntando sopra il nostro tratto scoperto. Uscendo di là, dovevamo discendere al fondo della dolina, attraversarla, risalire dalla parte opposta, e poggiare sui due lati dell'angolo formato dalla trincea nemica. Proprio al vertice dell'angolo era postata quella maledettissima arma che volevamo portar via. Non v'era un fasciame fisso di filo spinato, ma v'erano dei reticolati mobili, disposti senza ordine, che, se non impedivano del tutto il passo, lo ostacolavano tuttavia seriamente. Guai per noi, se il nemico si fosse accorto del nostro movimento; l'impresa sarebbe miseramente fallita, e ci avremmo lasciato la pelle tutti quanti. Il terreno era tutto ingombro di cadaveri; ci siamo infiltrati fra loro e fra loro abbiamo raggiunto la linea di fuoco. Quella decina di metri di terreno scoperto, dall'una all'altra estremità della nostra linea, era un torrente di proiettili. Tutto il fuoco di fucileria sembrava concentrato in quel punto e aveva del rabbioso; anche la mitragliatrice, di tanto in tanto, vi avventava il sibilante ventaglio dei suoi colpi.
Gli Austriaci dovevano temere una sorpresa e volevano, evidentemente, impedirla se su quel tratto di pochi metri facevano convergere tanta potenza di fuoco. Uscire non si poteva, attendere sì. Tentare una sortita, in quel momento, non solo era temerario ma era pazzesco, una strage inutile e stupida. Bisognava attendere che la bufera di fuoco cessasse o rallentasse di intensità. Tratto tratto il lamento di un nuovo ferito, un singulto, un rantolo, un'ombra che aveva uno scatto e strapiombava al suolo. Molti di noi, nell'attesa, per sottrarci a quella esasperante immobilità, pur di fare qualche cosa, avevamo infilato i fucili nelle feritoie e sparavamo come dannati. L'alba è il momento più propizio della giornata alle sorprese perché ritrova gli uomini insonnoliti e stanchi dalla lunga veglia. È necessario eliminare il pericolo delle sorprese e allora si spara, rabbiosamente.
Sorgeva da levante il gran disco rosso: l'altro nostro grande tormento; questo sole destinato ad asciugarci, atteso per riscaldarci le membra, attesissimo per illuminarci, diventava poi così rovente da far scottare il suolo. Accieca, cuoce: i cadaveri, sotto l'azione del sole di giorno e della pioggia di notte, marciscono in ventiquattr'ore, il loro disfacimento procede inverosimilmente rapido. Dalla terra venivano miasmi insopportabili, fetori ammorbanti; a volte, sotto un leggero alitare di vento, giungevano le tanfate della putrefazione che mozzavano il respiro.
Tenevamo le narici tappate, ma il lezzo era nell'aria e nelle cose, noi stessi dovevamo esserne impregnati, perché lo sentivamo ugualmente.
La terra era tutta una putredine. Di qua e di là, avanti e indietro, cadaveri, cadaveri, dappertutto cadaveri. Nugoli di mosche dal ventre verdastro si alzavano e si abbassavano, ingorde sui residui di cibo, sulla carne putrefatta, sugli escrementi, sui morti e sui vivi. Necessitava una immensa quantità di calce viva per seppellirvi sotto, coi morti, anche la terra e distruggere le mosche; quelle mosche che divoravano i morti e minacciavano di divorare i vivi. Si chiedeva acqua, non tanto per calmare l'arsura atroce quanto per sciacquarci la bocca da tutto quello che d'impuro, di sozzo, di nauseante era nell'aria. Si chiedeva acqua, e acqua non ce n'era; calce, e non se ne aveva; creolina, e non ce ne mandavano; c'era cognac, cognac per lavarsi, cognac per dissetarsi!
Un pensiero soltanto serviva per mantenerci su. I mali che noi soffrivamo doveva soffrirli anche il nemico, quell'arsura che ci inaridiva il palato e disseccava la gola dovevano sentirla anche loro, i nostri lamenti dovevano essere i loro lamenti; e quelle mosche, quelle sataniche mosche, che impunemente attraversavano la zona morta, dovevano vederle e godersele anche loro. Quel pensiero ci aiutava a resistere!
Il sole canicolare dardeggiava; l'ombra cadeva a perpendicolo. Ho guardato l'orologio: mezzogiorno. Dunque, fra un'ora! Finalmente! Fra un'ora cesserà quest'agonia! Avevo una sete d'inferno; ho chiesto la borraccia a un soldato. "Su tené, boida este, non d'hamos; tota die cun mesa ghirba semus". Pazienza. Mi sono messo a mordere l'ennesima sigaretta, illudendomi di aver bevuto. "Taras" - "Che c'è" - "Alle 12,57 esci con due minatori e con alcuni uomini mettendoti più che puoi in angolo morto e poggiando sulla destra dello spigolo; a tre minuti di distanza esco io con gli altri e poggio sulla sinistra. Stai attento che Utzeri e quell'altro portino le bombe pronte, alla loro maniera. Intesi?"
Utzeri e Fois avevano già preparato le loro bombe lenticolari, tagliano le micce quasi all'innesco, perché dall'accensione allo scoppio non passassero nemmeno tre soli secondi e tenevano in bocca i sigari accesi per darvi fuoco. Ne avevano pronte un tascapane. I due bombardieri sono usciti per primi, seguiti da Taras e dagli altri.
Rapidi come scoiattoli scendono, traversano la dolina, risalgono, si buttano giù, ventre a terra, a due metri dalla trincea nemica. Nessuno si è accorto di nulla tanto il movimento è stato rapido e silenzioso. I miei sono pronti, baionetta in canna, gli occhi lampeggianti, attendono un breve cenno. Gli altri, quelli che non dovevano sortire, stavano alle feritoie, fissi, attenti, pronti a far fuoco sul primo Austriaco che si fosse scoperto.
Ma il silenzio era profondo, la calma completa; la tremenda quiete dei campi di battaglia ove è cessato ogni cenno di vita. Un solo rumore, il ronzio delle innumerevoli mosche. Mi sono rizzato sulla trincea e ho visto i due lanciatori di bombe accostare allo stesso tempo i sigari alle micce, attendere un istante, con calma meravigliosa, e lanciare gli ordigni della strage nella trincea nemica. Le bombe sono scoppiate simultaneamente, seguite da altre due, da altre quattro. È stato un affare di secondi. È probabile che gli Austriaci abbiano creduto di essere sottoposti a quel tiro d'artiglieria che non abbiamo avuto nemmeno la fortuna di sentire e si sono scostati. Ho visto un rapido movimento, dietro le feritoie: ho urlato a Taras: "Tocca, Taras, mi chi fuent" e mi è parso opportunissimo non lasciarmi sfuggire quel momento, e mi sono lanciato con i miei urlando "Savoia". La breve distanza da trincea a trincea è divorata in meno che non si dica e, prima che si fosse sentita una sola fucilata, eravamo addosso ai nemici. Abbiamo coronato l'angolo della trincea austriaca e abbiamo cominciato a sparare, sulla massa dei fuggenti, a fuoco accelerato, con la maggiore rapidità possibile. Sentivo il fucile scottarmi tra le mani e mi accingevo a ricaricarlo quando mi sono accorto che il muretto sul quale io e gli altri abbiamo poggiato era crollato, lasciando un varco di circa due metri e dalla parte opposta della breccia, alla mia sinistra, un Austriaco, in ginocchio, teneva il fucile puntato verso di me. Eravamo a poco più di due metri l'uno dall'altro, e mentre, rapido come il lampo, mi attraversava il cervello il pensiero che quel tale mi faceva saldare tutti i conti in una volta sola, credo di essere diventato pallido più di un morto, come già mi consideravo. Ricordo soltanto di non aver ricaricato il fucile, che non ne avrei avuto il tempo, ma di averglielo scaraventato addosso, col caricatore a mezza cassa; ricordo di aver estratto dalla fondina la mia Glisenti e di aver sparato su di lui. L'ho colpito? Non so; non credo. Anche per quello mi sarebbe mancato il tempo. Penso che lo abbia colpito un altro dei nostri, un attimo prima che lui colpisse me.
I nemici non erano tutti scappati; sulla trincea ne erano rimasti ancora parecchi e non scherzavano affatto; sparavano forte, facilitando il riordinarsi dei fuggenti e l'arrivo dei rinforzi. Urgeva far presto. Attraverso il fumo e il polverìo si fece sentire la voce potente di Taras: "La bomba, Sopa; attento alla bomba" e mentre mi guardavo attorno per scoprire l'ordigno, ho sentito lo schianto dello scoppio, sono stato investito da una ventata d'aria calda, e, insieme a nuvole di terriccio e a frantumi di sassi, mi è arrivata su un ginocchio una violentissima bastonata. Sono cascato ginocchioni per terra, persuaso di essere stato ferito, ma l'assoluta mancanza di sangue, al tatto, mi ha tranquillizzato. Non era niente di grave e mi sono potuto rialzare stentatamente, zoppicando.
Gli Austriaci ritornavano a frotte, su tre gruppi. "Addosso al più vicino, ragazzi!" I miei si erano scagliati, a testa bassa, sul gruppo con una furia di demoni scatenati. Ho visto una baionettata feroce, data di sotto in sù da un caporale bassotto, con una barba di carbone, a un diavolone lungo, magro e rosso. L'arma aveva forato le guance ed era fuoriuscita dall'altra parte, insieme a tutta la ghiera della baionetta. L'austriaco era stramazzato, trascinandosi appresso il fucile, nella caduta, e il nostro era stato costretto a poggiare il tallone su quel povero viso per poterne strappar via tutto, ruggendo. Raccapricciante!
Il gruppo più temibile, il più vicino, per quanto il meno numeroso, era stato ricacciato. Una nostra compagnia, quella comandata dal capitano Trani, era accorsa e aveva coronato tutto il lato destro dello spigolo, tira rapida e precisa: gli altri due gruppi tornavano indietro. Ma la loro artiglieria, come al solito, ha cominciato a far fuoco sui nostri e sui propri; su di noi per disturbarci nel lavoro di rivolgimento della trincea occupata, sui loro per costringerli a tornare all'attacco.
Ed essi ritornavano, sempre più numerosi. I due gruppi si erano fusi in uno solo e mi tenevo pronto per un secondo attacco alla baionetta.
Allora il secondo battaglione, alla nostra sinistra, pur non dovendo muoversi, ha rotto la consegna. Infrenabili, alcuni reparti sono sortiti distendendosi e riparandosi dietro i lavori di approccio compiuti nelle giornate del 19 e del 20, controbattendo, col loro fuoco, quello nemico e impedendo che fossimo presi d'infilata dall'altro lato corto della zeta e proteggendo così mirabilmente il nostro fianco sinistro.
Bello, bellissimo, commovente, quel grande spontaneo sentimento di solidarietà che li spingeva a esporsi pur di soccorrere quelli che essi vedevano in una criticissima situazione. La battaglia pareva dovesse assumere proporzioni molto più vaste quando si è verificato l'imprevisto, proprio nel momento in cui stavamo per lanciarci e impegnarci, disperatamente, in un secondo corpo a corpo.
Il folto gruppo nemico ha improvvisamente buttato le armi e alzando le mani ha proceduto risolutamente verso di noi. Si arrendevano!
Essi che per numero ci soverchiavano correvano alla resa, mani in alto! "Kamaraden! Kamaraden!" si udiva nel polverone denso, tra fumo, guizzi e lampi, ma quella loro artiglieria maledetta, non appena se n'è accorta, ha cominciato un fuoco micidialissimo contro amici e nemici, indistintamente, battendo tutta la zona con vero furore. Ormai gli Austriaci erano nella nostra linea e la trincea era già voltata.
Abbiamo lasciato la nuova posizione in mani sicure e ce ne siamo tornati a casa; abbiamo contato i prigionieri, in tutto 87, con due cadetti.
La Schwarzlose era là, per terra, mansueta. Aveva una cartuccia del nastro messa per traverso, anche quello, probabilmente, ha contribuito alla nostra vittoria».