EXCALIBUR 98 - giugno 2017
in questo numero

G7 a Taormina: un grande spot (turistico) per l'Italia

Un incontro dall'esito scontato: ma è meglio essere chiari

di Angelo Marongiu
Sopra: la solita foto di gruppo uguale a tante altre
Sotto: il solitario Gentiloni alla conferenza finale
Solo sei pagine e 39 paragrafi: è questa la consistenza del documento conclusivo del vertice dei sette grandi (Stati Uniti, Canada, Giappone, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia) tenutosi a Taormina il 26-27 maggio scorso. Confrontati con le 30-40 pagine conclusive dei precedenti incontri, la differenza dà un'idea concreta della particolarità di questo vertice rispetto agli altri.
Finalmente, una volta tanto, ci è stato risparmiato il trito rituale dei visi sorridenti, delle grandi pacche sulle spalle, dei toni trionfalistici che annunciavano concordanza di intenti, protocolli di intesa, impegni comuni e via discorrendo. Poi, una volta tornati ognuno al proprio paese, tutto restava immutato come prima.
Questa volta - merito o colpa di Donald Trump, fate voi - non è andata così.
Dell'agenda in discussione - terrorismo. migranti, clima, commercio - i risultati vanno dal fallimento più completo al compromesso striminzito. Dopo due giornate di lavori dei sette capi di stato dei paesi più industrializzati del mondo, più i presidenti delle istituzione europee Tusk e Juncker - protetti da uno spiegamento eccezionale di forze, oltre 10 mila agenti, navi da guerra, aerei e droni e i migranti dirottati in altre coste - è venuto fuori solo un accordo di massima sul tema della lotta al terrorismo, il cui contenuto è peraltro sconosciuto. Ma considerando che nel precedente vertice Nato ci si era ben guardati dall'assumere concreti impegni di lotta - solo "azioni di addestramento" (nuovo modo per affermare che non si sarebbe fatto niente) - la sensazione è che anche questo documento sia aria fritta e che l'unico veramente intenzionato a fare la guerra sul campo è il grande assente di questi vertici: la Russia di Putin.
Eppure, dopo i fatti di Manchester e la solita strage di cristiani copti in Egitto, ci si aspettava qualcosa di più determinato. Invece, nulla. Sull'altro tema, quello dei migranti - dal quale l'Italia, come paese organizzatore, certamente si aspettava qualcosa - anche in questo caso solo dichiarazioni di facciata, ma fatti concreti: nulla.
Si ribadisce che a ogni paese sarà consentito di decidere la propria politica di apertura e difesa dei confini per gestire il problema migratorio. Era un punto centrale dell'agenda (l'Italia ha insistito perché partecipassero anche Tunisia, Kenia, Etiopia, Niger e Nigeria), ma, oltre a dichiarazioni tipo «la sfida dell'Africa ha trovato un interesse in tutti i leader, a partire dal presidente Trump», come detto da Gentiloni o, come scritto nel paragrafo 24 del comunicato finale, «Riconosciamo anche la necessità di aiutare i rifugiati vicino alla loro casa, finché è possibile, o renderli in grado di ritornarci e aiutarli a ricostruire la loro comunità», altri risultati non ne sono arrivati.
Del resto il problema dei flussi migratori interessa solo l'Italia, interessa poco al resto dell'Europa (la Germania ha praticamente bloccato la rotta dei Balcani che la coinvolgeva direttamente, pagando la Turchia con i soldi di tutti gli Europei) e men che meno poteva interessare gli Stati Uniti. Quindi, anche qui, un risultato catastrofico, come era lecito attendersi.
L'altro argomento che, chissà perché, stava a cuore a molti, era quello del clima, confondendo lo stesso con l'inquinamento. Anche in questo caso naturalmente mancava l'interlocutore più coinvolto per quantità di emissioni, cioè la Cina. La richiesta conferma dell'adesione agli accordi di Parigi del 2015 non è arrivata e Donald Trump invece di un "no" secco ha preferito affermare che si sarebbe preso una settimana di tempo per decidere. Ma ha ricordato che fra "Parigi 2015" e la crescita economica degli Stati Uniti non ci saranno dubbi su quale sarà la sua scelta. La Merkel si è lamentata asserendo che erano sei contro uno. Ma Parigi 2015 non era altro che il prolungamento di Kyoto di 20 anni fa (11 dicembre 1997) con il suo 20-20-20: chi se lo ricorda più? Ridurre le emissioni di gas serra del 20%, alzare al 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e portare al 20% il risparmio energetico: il tutto entro il 2020. Il 2020 sta arrivando e, nonostante i miliardi di dollari e di euro spesi, questi obiettivi sono ancora più distanti.
Le motivazioni antropiche che piacciono tanto ai nostri ambientalisti - ora anche Barak Hussein Obama si è messo a cavalcare il business dell'ambiente legato alla nutrizione con conferenze da centinaia di migliaia di dollari per la sua fondazione e ingresso a 850 euro! - sono solo fumo negli occhi. Servono a mantenere in vita un'altra Agenzia delle Nazioni Unite come la Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), che, per dimostrare la necessità della sua esistenza, non ha esitato a falsificare i dati sul clima.
Un altro punto in programma riguardava il commercio. Anche qui il compito non era facile poiché occorreva conciliare la politica dei dazi e delle barriere preannunciata da Trump con l'approccio multilaterale degli altri paesi. La bozza finale è rimasta aperta fino alla fine salvo inserire l'impegno ai mercati aperti e la "lotta la protezionismo".
E poi anche la decisa opposizione a qualsiasi "pratica scorretta del commercio". E qui era sottinteso il richiamo al surplus commerciale tedesco («i Tedeschi sono cattivi») e alle svalutazioni competitive dei mercati asiatici.
E poi viene ribadita la necessità di spingere su crescita e lavoro in un contesto nel quale la crescita, pur presente, si muove ben al di sotto delle sue potenzialità nei diversi paesi, creando ulteriori squilibri.
Se il Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk aveva dichiarato che questo vertice sarebbe stato il vertice più impegnativo degli ultimi anni, non nascondendo che i vari leader avevano su alcuni punti posizioni decisamente diverse, lo stesso Gentiloni nella conferenza finale (tenuta da solo perché gli altri "grandi" avevano preferito andar via con variegate motivazioni) ha definito il G7 di Taormina «una discussione vera» come sempre, «ma forse in questo caso più autentica di altre».
Un elegantissimo modo di affermare che si era discusso molto ma si erano trovati pochi punti di intesa.
Evviva la sincerità!
Pensate se al posto di Gentiloni ci fosse stato Renzi: sicuri toni trionfalistici, successo in tutta la linea e qualche slide di contorno. E qualche tweet per non guastare.
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