EXCALIBUR 102 - marzo 2018
in questo numero

Qualcosa di nuovo sul fronte dell'economia? Forse no

La discussa adozione della flat-tax e i suoi risvolti sul nostro paese

di Angelo Marongiu
Sopra: il discusso grafico di Laffer
Sotto: la nuova geografia dell'Italia dopo il voto del 4 marzo
Non mi ricordo più in quale opera di José Luis Borges (forse in "Storia dell'eternità" oppure in "Discussioni") c'era una sua riflessione paradossale: noi sosteniamo che il passato è alle nostre spalle e che procediamo verso il futuro che è davanti a noi.
Ma per il grande argentino è vero il contrario: noi andiamo verso il futuro ma con le spalle rivolte a esso, a passi all'indietro. Infatti il passato è chiaro e nitido perché è davanti a noi, mentre il futuro - alle nostre spalle - è sconosciuto: non sappiamo cosa esso ci riserverà, né tantomeno quanto ne abbiamo ancora da vivere.
Questa sua riflessione mi è venuta in mente osservando - in maniera alquanto indifferente - ciò che è avvenuto in questa inutile campagna elettorale per le elezioni politiche del 4 marzo.
È il passato che continua a essere presente: è tornato di moda il solito ritornello della lotta resistenziale contro il fascismo che ritorna. Sembra che tutti i problemi dell'Italia, la sua miseria, il suo colossale debito, la sua ridicola crescita, la disoccupazione che continua a mordere, la magistratura che - imperterrita e impunita - si intromette per ogni dove, l'invasione incontrollata delle nostre coste e le sue conseguenze colpevolmente ignorate: ebbene, sembra che tutto ciò proprio non esista.
Ciò che sembra importante e che merita la mobilitazione delle masse è sempre quel passato che è comodo non dimenticare: il rigurgito fascista. Mentre centinaia di scalmanati dei centri sociali sfasciano e bastonano tutti, poliziotti compresi, e restano impuniti, l'unica cosa che fa paura sono quei quattro gatti di Casa Pound, a volte anche patetici nella loro esiguità. E giù botte, da una parte e dall'altra, come ai vecchi tempi. E si bastona Forza Nuova e Potere al Popolo, in una specie di "par condicio" illogica. La novità è il parto del "certificato di antifascismo", buffonata terrificante. Ne avevamo proprio bisogno.
E, fra promesse e mancette, la campagna elettorale è andata avanti, riproponendo le solite amenità. Manfrine continue, il governo che elargisce un po' di mance per raccattare quattro miserabili voti, rinnovi contrattuali fermi da anni e miracolosamente sbloccati e le solite promesse di sempre e i fermi propositi di respingere governi di larghe intese (in Germania chiamate pomposamente "grosse koalizionen" e da noi "inciucio"), perché con gli avversari - anzi "I nemici" - non si fanno accordi. Aria fritta.
Il futuro? Non se ne parla.
Ricette economiche? Non pervenute, fatta eccezione per i soliti slogan: la immarcescibile patrimoniale, tassiamo i ricchi che hanno troppo, diamo ai bisognosi (vedi la promessa di abolizione del canone Rai per chi ha oltre 75 anni e un reddito da miserabile: capirai lo sforzo!), e queste cose, oltre l'allargamento della platea dei beneficiari dei mitici 80 euro, sono dette da Gentiloni e Renzi con una serietà da premio Nobel che partorisce idee rivoluzionarie.
In questo scenario la novità è rappresentata dal vegliardo Berlusconi che - invece di godersi il riposo ai giardinetti - rispolvera la "flat-tax" e riparla della curva di Laffer che - non più giovane anch'essa - ha compiuto ormai quarant'anni.
Nel 1980 l'economista americano Arthur Laffer, incontrando per caso in un ristorante l'allora candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Ronald Reagan - scarabocchiando su un tovagliolo uno schema grafico - gli consigliò di adottare una politica di riduzione delle imposte dirette. Con questa "curva a campana" l'economista sosteneva che quando la tassazione supera una certa soglia provoca non un aumento ma la diminuzione del gettito per le casse dello Stato. Laffer sosteneva che esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale non è più conveniente intraprendere attività economiche e il gettito è destinato a diminuire.
In altre parole, quando le tasse sono troppo alte e superano una determinata soglia, i soggetti economici troveranno conveniente cessare o ridurre l'attività economica (con conseguenze negative non solo sul gettito ma anche sul Pil e sull'occupazione) oppure dar vita a comportamenti quali l'elusione e l'evasione fiscale, con la diretta conseguenza - in ogni caso - che le entrate fiscali per le casse dello Stato diminuiranno considerevolmente.
Un concetto banale, ripetuto in ogni dove da tutti gli organismi mondiali ed europei, ma che ha solennemente lasciato indifferenti i nostri valenti "economisti" - bocconiani compresi - la cui unica competenza si è ridotta a fare i conti con miseri decimali e, soprattutto, a raggranellare più entrate possibili per alimentare la insaziabile macchina statale ed elargire regalini al più vasto numero di possibili elettori.
Ed è così che l'alta pressione fiscale e l'eccessivo rigore cui l'Italia è sottoposta dalla fine del 2011, hanno iniziato a produrre - e continueranno purtroppo a generare - una convenienza per gli imprenditori a cessare o a ridurre l'attività economica in Italia (trovando più economico produrre in paesi che hanno una pressione fiscale più bassa) oppure a evadere o eludere il fisco, provocando in ogni caso la conseguenza di una diminuzione del gettito.
Tra i programmi economici delineati per le prossime elezioni politiche, l'adozione della flat tax con le sue modulazioni (aliquota unica al 23% e fascia esente ai 12.000 euro) è l'unica che tende alla riduzione globale del carico fiscale e con la prospettiva del conseguente aumento del gettito fiscale.
Queste scarne considerazioni si fermano qui: quest'analisi, cominciata prima delle elezioni del 4 marzo - dopo i risultati delle stesse non hanno più alcuna prospettiva. Una possibile vittoria della coalizione di centrodestra avrebbe potuto rendere praticabile questa opzione economica, ma lo scenario politico scaturito dai risultati elettorali ha spazzato via ogni prospettiva e la scena politica è profondamente mutata.
Se diamo un'occhiata all'Italia post-voto e alla sua divisione c'è da rimanerne profondamente scossi. Alla divisione ideale tra destra e sinistra di una volta (divisione comunque trasversale nella nostra società) si è sostituita una divisione tra tre movimenti ideali, con una preoccupante spaccatura geografica.
Da una parte, al Nord, la cosiddetta Italia produttiva che ha scelto la coalizione di centrodestra e un'altra parte, al Sud, notoriamente più arretrato, che ha scelto il Movimento 5 Stelle. In mezzo una macchia, quasi anomala, di centrosinistra.
Quindi, semplificando, a Nord la scelta economica è stata per la flat-tax, capace di ridurre il carico fiscale e rilanciare gli investimenti e dall'altra, a Sud, la scelta allettante del cosiddetto "reddito di cittadinanza" (rilanciato da Grillo in "reddito di nascita") che di economico non ha proprio nulla.
Ora cominceranno i giochini sulla formazione del nuovo governo.
Ma ci sono alcuni numeri che - chiunque andrà a governare - dovrebbe ben tenere presenti davanti a sé. Il nostro debito pubblico è pari a 2.380 miliardi di euro, ha un costo annuo di oneri finanziari pari a 65 miliardi di euro, cioè il 4% del Pil, e pesa per il 131,5% del Pil.
Anche gli Stati Uniti e il Giappone hanno un debito pubblico molto alto (il Giappone addirittura al 240%), ma questi Stati dispongono di una leva finanziaria che noi non abbiamo: stampano moneta e possono controllarne il cambio.
E quando - forse da settembre - la Bce non acquisterà più i 30 miliardi di euro al mese di titoli europei, allora saranno dolori. Non è un caso che il più grande fondo di investimenti al mondo - Blackrock - dopo i risultati delle elezioni (il peggior risultato possibile secondo il suo presidente) abbia sconsigliato l'acquisto di titoli italiani.
Con queste prospettive aspettiamoci una impennata dello spread, a meno che non succeda qualche miracolo: ma ci dovrebbero essere sostanziali conversioni sulla via di Damasco, per ora non all'orizzonte.
E poi Damasco ha già i suoi problemi.
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