EXCALIBUR 114 - maggio 2020
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La Sardegna da isola felix a isola pestifera

una pubblicazione di Angelo Abis sull'endemia tubercolare a Cagliari
Una pubblicazione di Angelo Abis sull'endemia tubercolare
a Cagliari
Eppure in un lontanissimo passato, qualche millennio prima di Cristo, i Greci avevano scoperto che «la Sardegna è un'isola grande, ricca di vegetazione e di straordinari edifici, popolata da gente libera e che ama la libertà».
Ancora nel VI secolo a.C. lo storico greco Erodoto racconta che il sapiente Bionte suggerisce agli Ioni, abitanti di un'isola dell'Asia minore, terrorizzati da una incombente invasione dei Persiani, di fuggire in Sardegna, attribuendo all'isola la capacità di rendere felici chi la abiti. Le nostre disgrazie iniziarono a partire dal V secolo a.C., quando i Cartaginesi sbarcarono in Sardegna portandoci la malaria.
E da allora siamo passati da isola felix a isola pestifera, buona solo per le deportazioni e i Sardi da popolo libero e amante della libertà a razza malvagia. Siamo stati bollati malamente da Cicerone: «Tutto ciò che è in Sardegna di uomini e cose è male. Persino il miele in Sardegna è amaro».
Padre Dante invece scriveva che i Sardi parlavano come le scimmie e ammoniva le donne fiorentine a non prendere esempio dalle donne di Barbagia, considerate scostumate (oggi diremmo emancipate).
Per non parlare degli illustri antropologi di fine ottocento e primi del novecento, tutti di scuola socialista, che parlavano dei Sardi come di razza criminale.
Pochi i nostri estimatori, ma buoni. Si va dal grande linguista tedesco Leopold Wagner (seguito nel dopoguerra da Ernest Junger) al buon D'Annunzio, che con toccanti pagine descrive l'estrema miseria dei minatori del Sulcis.
Ovviamente non tutto è da addebitarsi alle epidemie o alle calamità naturali, molto pure è dovuto all'insipienza dei dominatori dell'Isola. Soprattutto gli Spagnoli, i quali imposero un sistema fiscale farraginoso e vessatorio che aggravò le già tristi condizioni della popolazione.
Anche casa Savoia, pur animata da buona volontà, fece poco o nulla, oltre che contribuire alla distruzione delle foreste, dandole in concessione alle società ferroviarie per la produzione di traversine e ai carbonai del continente per la produzione della carbonella.
Il quadro della Sardegna nei primi decenni del XX secolo è veramente desolante.
Leggiamo da una indagine del sindacato fascista del 1924: «su 364 comuni sardi, ben 299, con 535.277 dei 791.750 abitanti [...] erano approvvigionati con acqua tratta da pozzi, corsi d'acqua, sorgenti, etc.. Degli altri 65 comuni, con 256.277 abitanti, solo 26 avevano un acquedotto, e di questi solo 6 portavano l'acqua nelle case. Ancora su 364 comuni, 357 erano senza fognature, 156 senza edifici scolastici, 199 con cimiteri insufficienti [...], su 127.000 case rurali, 13.456 dovevano essere abbattute, 28.400 richiedevano grandi riparazioni, 561 erano costituite da grotte».
A questo aggiungiamo i dati epidemiologici. Malaria: circa il 10% della popolazione ogni anno a letto per 6 mesi con le febbri malariche, oltre il migliaio i deceduti, perlopiù bambini al di sotto dei 10 anni, primo posto assoluto fra le regioni d'Italia.
Tracoma (una infezione che colpiva gli occhi e che poteva portare alla cecità): 6-7 mila casi all'anno, ancora alla Sardegna il primato per il numero dei cechi in Italia.
Infine la tubercolosi, diffusasi rapidamente nel primo decennio del novecento a opera di immigrati sardi rientrati dalle Americhe, dove avevano contratto il morbo. La malattia, in alcune sue forme altamente contagiose, veniva vissuta dai Sardi come qualcosa di terribile di cui quasi vergognarsi e sulla quale si manteneva un rigoroso riserbo.
La tubercolosi, su una popolazione inferiore al milione di abitanti, causava 2 mila morti all'anno e circa 15-20 mila ammalati. Inutile aggiungere che le strutture sanitarie erano fortemente carenti, le spese insufficienti e per lo più a carico dei comuni.
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