EXCALIBUR 126 - marzo 2021
in questo numero

Il Giudicato di Gallura e le sue famose giudicesse

I complicati intrecci dinastici che decidevano le sorti dei Giudicati

di Ernesto Curreli
il Giudice di Gallura e 'Re di Sardegna' <b>Enzo di Hohenstaufen</b>, marito di Adelaide, da una miniatura della 'Nuova Cronica' di Giovanni Villani
Sopra: il Giudice di Gallura e "Re di Sardegna"
Enzo di Hohenstaufen, marito di Adelaide, da
una miniatura della "Nuova Cronica" di Giovanni
Villani
Sotto: Beatrice d'Este di Gallura in una
miniatura medioevale
<b>Beatrice d'Este di Gallura</b> in una miniatura medioevale
Ripercorrere le vicende dei Giudicati-Regni di Sardegna non è stato facile per gli storici dei secoli passati che se ne sono occupati. Oggi, grazie alle fatiche di valorosi storici e di giovani ricercatori appassionati di storia sarda, le ricostruzioni sui Giudicati sono più affidabili e documentate, per il più facile accesso negli archivi civili e religiosi europei. Nell'Alto Medioevo, come del resto in tutta Europa, le scarse fonti documentali sono parziali e spesso contraddittorie. Di certo si può presumere che anche in Sardegna la formazione di potentati locali prese l'avvio dalla condizione economica e dall'isolamento che caratterizzò quel periodo. La caduta dell'impero romano aveva determinato la cessazione dei traffici nel Mediterraneo, percorso ormai da flotte di barbari e di musulmani che si abbandonavano a razzie e devastazioni tali che neppure il ricostituito impero romano d'Oriente poteva più fermare per la sua debolezza militare. Gli arconti bizantini guidarono per alcuni secoli le sorti della Sardegna, ma presto, soprattutto per le spaventose scorrerie dei Saraceni, si trovarono costretti a delegare il potere politico e militare a "luogotenenti" o "conservatori del luogo", che a loro volta divisero il territorio in ulteriori partes (Parte Olla, Parte Barigadu, Parte Valenza, ecc.) e che infine assunsero poteri sovrani e indipendenti rispetto all'arconte di Cagliari fin dal IX secolo.
Le condizioni del popolo delle campagne erano peggiorate con la scomparsa dell'autorità centrale romana. L'antico colonus romano aveva ricevuto la terra demaniale con l'obbligo, per lui e i suoi discendenti, di coltivarla e di non abbandonarla, ma era ritenuto un uomo libero rispetto allo schiavo. Ma questa "libertà" era scomparsa con il caos del IX secolo, che accentuava il bisogno di protezione, facendo emergere due figure. La prima era quella di un protettore pubblico, che rappresentava la legge e la sua concreta applicazione, per la salvezza terrena, che si materializzò nella figura del "Judike". La seconda era quella del vescovo e dei prelati, che alimentavano la fede popolare in una vita ultraterrena, per la salvezza dell'anima. Il contadino si obbligava allora a prestazioni di carattere servile nelle terre dei mayorales, dello stesso rennu e del clero, dietro protezione e tutela legale. È stato calcolato che la popolazione servile nei Giudicati rappresentasse circa i due terzi della comunità giudicale, godendo tuttavia di ampi diritti civili e sociali. Della condizione servile e degli strumenti di repressione giudiziaria esistono abbondanti testimonianze.
Restiamo nel Giudicato di Gallura, che per la sua posizione geografica era il più prossimo alla Penisola italiana e quindi tra i più influenzati dalla civiltà e dalle vicende che vi provenivano. Aveva come stemma statale un gallo nello scudo ed era diviso in tredici "curatorie" amministrate da ufficiali pubblici. Non si devono vedere i Giudicati, dall'Anno Mille in poi, ancora chiusi in sé stessi e refrattari agli impulsi europei. Il Giudicato, scarsamente popolato, esportava prodotti alimentari nella Penisola e questi scambi commerciali non erano una novità nella Sardegna medievale. Già nell'851 il Papa Leone IV chiedeva al "Judex Sardinie" l'invio a Roma, in pericolo a causa dei Saraceni, «di ragazzi, giovani e adulti» con le loro armi per la difesa della città, oltre alla fornitura di tessuti di lana marina, la "lana d'oro", necessaria per realizzare le ricche e pompose vesti dell'alto clero, che prometteva di pagare "a qualsiasi prezzo". Un decennio dopo il Papa Nicolò I (858-867) rimproverava però ai giudici sardi l'usanza scandalosa dei loro matrimoni tra consanguinei per «incestas et illicitas nuptias» minacciandoli di scomunica, cosa che avrebbe fatto perdere loro la salvezza ultraterrena. E aveva ragione, perché a fianco del nome del portatore di titolo giudicale si trova molto spesso il cognome dei Lacon-Gunale, probabilmente il nome delle prime dinastie giudicali.
Elena de Lacon Giudicessa di Gallura (Civita 1190 - Olbia 1218) fu la prima donna sarda ad assumere la dignità di Giudice per diritto dinastico e regnò dal 1203 al 1218. Era figlia di Barisone I de Lacon e di Odolina de Lacon. Salì al trono appena tredicenne, sotto la reggenza della madre. Il Giudicato era in quel tempo sotto le mire della Repubblica di Pisa, che voleva estendere la sua influenza anche politica sui Giudicati sardi, in latente conflitto col papato, che vantava una signoria solo nominale sulle terre sarde. Anticipando le mire di tanti pretendenti, Elena si sposò nel 1204 con Lamberto Visconti, che in seguito sarebbe stato uno degli sposi di Benedetta di Cagliari. Elena e Lamberto contrassero matrimonio a Olbia nella basilica di San Simplicio alla presenza del clero, dei "mayorales" e del popolo minuto. Sembra che il loro matrimonio fosse stato felice. Passavano le belle stagioni nella reggia di Baldu a Luogosanto, immerso nella frescura di un'ampia zona boschiva. Il palazzo era su tre piani, con ben sedici ambienti e una grande terrazza. Elena si spense nel 1218 a Civita, all'età di 28 anni, sicuramente per un parto difficile, dando alla luce il figlio Ubaldo. Fu tumulata nella basilica di Nostra Signora di Luogosanto. A lei subentrò nel rennu Lamberto Visconti, divenuto a pieno titolo Giudice di Gallura. Nel 1225, morto Lamberto, seguì alla guida del Giudicato per diritto dinastico il figlio Ubaldo II.
Adelasia de Lacon-Gunale, nata ad Ardara (SS) nel 1207, fu Giudicessa del Giudicato di Torres e, quale consorte, anche Giudicessa di Gallura. La sua è una vicenda tormentata, vissuta tra intrighi esterni, lotte di potere e matrimoni problematici. Oltre ai due titoli giudicali, assunse anche il titolo di "Regina di Sardegna" quando sposò Enzo, sebbene di quest'ultimo regno non ebbe mai il dominio. Era figlia di Mariano II di Torres e di Agnese di Massa, questa a sua volta figlia del Giudice di Cagliari Guglielmo di Massa e perciò sorella della Giudicessa di Cagliari Benedetta di Massa.
Il fratello di Adelasia, Barisone III di Torres, salito al trono dopo la scomparsa di Mariano II, rimase per pochi anni alla guida del Giudicato di Torres, fin quando nel 1236 trovò la morte in una congiura promossa dalle famiglie dei Doria e dei Malaspina che volevano un giudice sotto il loro controllo. La "Corona de Logu" (Consiglio reale) di Torres vi pose subito rimedio proclamando per acclamazione Adelasia nuova giudicessa di Torres, che prese il bacolo regale nello stesso 1236. Ma intorno a lei, per quello che rappresentava, si presentavano sempre minacce e pressioni, avanzate persino dal papa romano con le sue pretese di sovranità sulla Sardegna. La giovane donnikella era stata promessa in sposa dal padre Mariano II a Ubaldo Visconti, figlio di Lamberto Visconti Giudice di Gallura. Obbedendo alla volontà paterna, le nozze si celebrarono nel 1219, tra fanciulli entrambi appena dodicenni, con una fastosa cerimonia con grande concorso di popolo nella stupenda chiesa della Santissima Trinità di Saccargia, forse la più bella abbazia sarda dei monaci di Camaldoli, che in Sardegna possedevano terre e servi. Ubaldo alla morte di Mariano II ereditò il titolo di Giudice consorte di Torres e Adelasia, col matrimonio, quello di Giudicessa consorte di Gallura. Dopo vent'anni di matrimonio felice, Ubaldo morì nel 1238, ad appena 31 anni.
Adelasia, ormai vedova, a causa di un contorto lascito testamentario del padre, rimase Giudicessa di Torres sotto la tutela del Giudice di Arborea Pietro II, che la promise in sposa a Guelfo de Porcari, che nel 1203 era stato Podestà di Pisa, gradito al Papa e di nobile famiglia romana. Adelasia lo rifiutò tra lo stupore dei membri della Corona, forse per motivi politici che potrebbero collegarsi alla lotta tra i guelfi di Pisa e i ghibellini filo imperiali. Poco dopo, nel 1238, accettò invece la proposta degli esponenti dei Doria, ricca famiglia di possessori di terre e mercanti genovesi stanziata nel Logudoro, di sposare il principe Enzo di Hohenstaufen, figlio naturale legittimato di Federico II di Svevia, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, da anni in guerra col papato. Ma il nuovo matrimonio non portò felicità alla regina, perché Enzo, un diciottenne bello, biondo e focoso, rimase pochi mesi con lei nella reggia di Ardara, preferendo trascorrere le sue giornate a Sassari, dove una sua concubina diede alla luce la figlia illegittima Elena. Lasciò Adelasia e la Sardegna per sempre dopo appena un anno, nel 1239. Non fu la sua unica figlia perché, chiamato alle armi dal padre Federico II, con le sue avventure galanti ebbe altri tre figli, tutti illegittimi: Maddalena, Costanza, Enrico. In una miniatura antica è ripreso Il giovane Enzo vestito di nero, catturato e condotto nel carcere di Bologna dopo la sfortunata battaglia di Fossalto (Modena) del 1249, dove morì nel 1272. Adelasia ottenne l'annullamento del matrimonio per adulterio, portando ancora il titolo di Giudicessa di Gallura in quanto vedova di Ubaldo e di Giudicessa di Torres per diritto giudicale, fino alla sua scomparsa, che secondo una incerta tradizione la coglierà sola e superba nel castello di Burgos di Sardegna nel 1259, 13 anni prima del fedifrago Enzo. Che a sua volta, fino alla morte, continuò a fregiarsi del titolo di Giudice di Gallura per diritto coniugale e di Re di Sardegna per il "vuoto" titolo conferitogli dal padre, il grande imperatore Federico II di Svevia.
La Giudicessa Alasia, chiamata anche così nelle cronache in lingua sarda, è ricordata con affetto dai cronisti del suo tempo. «A contu d'esser donna istetit serva, qui mai pius appisit bene», ossia: "anziché essere trattata come donna (donna intesa come nobile e non come genere, perché donna, donnu e donnikellu/a erano i titoli dei nobili rampolli giudicali) fu una serva succube di Enzo e non fu mai più felice". Nel "Libello Judicum Turritanorum", scritto in Sardo, Alasia negli ultimi anni sembra però aver conosciuto una sorte meno infelice. Prelati e liberi del Logudoro la convinsero ad abbandonare la solitudine di Burgos per trasferirsi nella reggia di Ardara, dove, alla presenza dei prelati e di un notaio, dispose che alla sua morte il Giudicato di Torres rimanesse nella "proprietà" nominale della Santa Sede, perché priva di eredi. Morte e sepoltura furono degne di tale regina, perché spirò circondata dai nobili giudicali e tumulata nella magnifica chiesa di Nostra Signora del Regno di Ardara, di fronte all'altare maggiore. Gregorio IX fu un grande pontefice, promotore delle crociate per la liberazione del Santo Sepolcro dai musulmani ed efficiente organizzatore dei numerosi Ordini monastici. A capo della fazione anti imperiale, scomunicò per la seconda volta l'imperatore Federico II nel 1239, pochi mesi dopo le nozze di Adelasia col figlio Enzo, al quale aveva già lanciato l'anatema perché presunto eretico.
Beatrice d'Este Giudicessa di Gallura (1268-1334) nacque a Ferrara da Obizzo II d'Este e da Jacopina Fieschi. La madre apparteneva alla nobile famiglia genovese dei Fieschi di parte guelfa, che con l'altra famiglia guelfa dei Grimaldi e quelle dei Doria e Spìnola di parte ghibellina dominarono per secoli la Repubblica di Genova. Le famiglie genovesi e pisane insidiavano ormai da tempo i Giudicati. All'inizio erano penetrati con i mercanti, acquisendo ben presto dai Giudici franchigie fiscali, perché li consideravano benvenuti in quanto favorivano lo sviluppo economico dei territori ancora a economia agricola. Cominciarono con l'esenzione della tassa sul teloneo, l'antica imposta romana che colpiva chi vendeva merci nei mercati all'aperto e fin da subito ottennero l'esenzione dei dazi portuali. Ma col tempo riuscirono a inserirsi nei meccanismi politici giudicali, portandoli infine alla dissoluzione quali entità sovrane, con la sola eccezione del Giudicato di Arborea, che li osteggiò a lungo. Il Giudicato della Gallura subì una sorte avversa proprio a opera dei Pisani. Tra i giudici forestieri della famiglia dei Visconti toscani, dopo Ubaldo bisogna ricordare Giovanni Visconti, il quale, in virtù del testamento di Ubaldo, ebbe nel 1238 il Giudicato di Gallura. Tuttavia Giovanni, di fazione guelfa, lo governò per poco tempo, preso com'era dalle lotte intestine che travagliavano Pisa. Fu di nuovo in Sardegna nel 1274 ma ci rimase per meno di un anno. Tornato in Toscana, il Giudice sposò una figlia di Ugolino della Gherardesca di dantesca memoria, forse di nome Chiara, che diede alla luce nel 1265 Ugolino Visconti, più noto come Nino. Questi fin da giovane partecipò alle battaglie navali di Pisa contro Genova. E non era quel giovane "gentile" che ci descrive Dante Alighieri. A ventuno anni, nel 1286, due anni dopo la rovinosa battaglia della Meloria che vide la flotta pisana pesantemente battuta da quella di Genova, divenne per acclamazione Capitano del popolo di Pisa e l'anno dopo si prese con la forza la carica di Podestà della città, fino a quando fu costretto all'esilio dalla fazione ghibellina. La sua era una famiglia ricchissima e di nobili origini e Nino ereditò il Giudicato di Gallura per diritto dinastico. Si sposò con la bella Beatrice d'Este, forse nel 1286, della famiglia degli Este o degli Estensi, signori di ampi territori nell'Italia settentrionale. Lei era bella, bionda e giovane e il suo matrimonio durò fino alla morte di Nino, avvenuta in Sardegna nel 1296. Nino da giovane aveva frequentato Firenze, dove conobbe Dante Alighieri, che di Beatrice nella Divina Commedia lascia un ritratto severo e forse ingiusto.
Spentosi lontano da Pisa, sua vera patria, Nino chiese nel testamento, per odio a Pisa, che il suo cuore fosse portato dalla Sardegna in terra guelfa a Lucca e così avvenne. Beatrice, dopo quattro anni di vedovanza, convolò a nuove nozze nel 1300 con un altro Visconti, Galeazzo dei Visconti di Milano, di dieci anni più giovane di lei. Sembra che quel matrimonio fosse felice, malgrado le invettive di Dante contro la giovane, come scrive nell'VIII Purgatorio: «per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d'amor dura, se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende». E poi ancora «Non le farà sì bella sepoltura la vipera che Melanesi accampa, com'avria fatto il gallo di Gallura». Critica Beatrice anche per aver lasciato troppo presto (quattro anni!) «le bianche bende», all'epoca simbolo di lutto e vedovanza, avendo sposato Galeazzo. Beatrice morì nel 1334 a Milano e fu sepolta nella chiesa di San Francesco Grande, oggi demolita. Contrariamente a quanto afferma Dante, le cronache narrano che nel suo sepolcro fu scolpito lo stemma del "Biscione" dei Visconti e del "Gallo" di Gallura, essendo ancora "portatrice" del titolo giudicale, poi acquisito dai Visconti milanesi.


Fonti:
- "Storia dell'Europa medievale", Maurice Keen, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988;
- "Libello Judicum Turritanorum", anonimo cronachista sardo, forse un monaco, a cura di Antonietta Orunesu e Valentino Pusceddu, Edizioni Il Mediterraneo di un'Isola, stampa Astra Editrice, direttore responsabile Antonello Angioni, 1993 Quartu Sant'Elena (CA);
- "L'età dei Giudici", Alberto Boscolo, La Sardegna vol. 1, a cura di Manlio Brigaglia, Edizioni Della Torre, Cagliari 1982.
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