EXCALIBUR 130 - luglio 2021
in questo numero

Filippo Facci: "30 aprile 1993"

Alle origini dell'attuale degrado delle nostre istituzioni

di Angelo Marongiu
la copertina del volume edito da Marsilio Specchi
Sopra: la copertina del volume edito da Marsilio Specchi
Sotto: alcuni componenti del pool di Milano e Craxi all'uscita
dell'Hotel Raphael a Roma (30 aprile 1993)
alcuni componenti del pool di Milano
Craxi all'uscita dell'Hotel Raphael a Roma (30 aprile 1993)
Ci sono libri che leggo con grande interesse e che sconsiglio ad altri di leggere, perché la realtà descritta è triste e avvilente.
Il libro di Sallusti-Palamara, "Il Sistema", è uno di questi e non ne ho volutamente scritto in questa specie di rubrica di lettura perché, purtroppo, la realtà descritta è sempre presente dolorosamente nelle cronache dei giornali.
Questo libro di Filippo Facci è anch'esso uno di quei libri angoscianti: idealmente prelude allo sfascio dei rapporti tra politica e giustizia che appunto Sallusti-Palamara poi descriveranno.
Ma questo è anche un libro prezioso per ricordare.
Il sottotitolo del volume è "Bettino Craxi. L'ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica".
Nella presentazione del libro Stefania Craxi, figlia di Bettino, sottolinea giustamente che quel 30 aprile «è il giorno in cui nacque il mostro giustizialista», quasi uno spartiacque tra la Prima Repubblica e quello che verrà dopo di essa.
La giornata che dà il titolo al libro di Facci è quella nella quale tirarono le monetine a Craxi all'uscita dell'hotel Raphael, sua residenza abituale a Roma.
Quel giorno diventò così un giorno cruciale nella nostra storia, un momento unico e decisivo dal quale origineranno una serie di eventi che porteranno al nostro declino.
Il giorno precedente quel 30 aprile 1993, alla Camera dei Deputati, si doveva decidere dell'autorizzazione a procedere contro Craxi, accusato di una serie di nefandezze inerenti il finanziamento dei partiti. Craxi pronunciò in quell'occasione un discorso che nei ricordi di Marco Pannella aveva "onorato il Parlamento".
Craxi aveva ricordato a tutta l'assemblea che l'intero apparato della politica democratica pluri-partitica si reggeva sul prelievo "illegale" di soldi con i quali faceva funzionare tutte le organizzazioni politiche: i giornali di partito, le federazioni locali e il loro apparato funzionale (il solo Pci aveva più di cinquemila dipendenti), le riunioni dei vari comitati, le campagne elettorali.
«Buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare e illegale [...]. Non credo che ci sia nessuno in quest'Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo».
In Aula non volò una mosca. Craxi dirà poi nei suoi ricordi: «Mi guardai attorno e guardai i miei colleghi. L'Aula era stracolma e nessuno aprì bocca. Fu un silenzio di verità. A cui seguirono montagne di bugie, falsità e viltà».
Un altro momento storico di quel discorso è quello nel quale Craxi ricorda che l'epoca craxiana è l'Italia degli anni Ottanta, nella quale crebbero il benessere e la prosperità, anni di espansione e sviluppo, nei quali si pose fine al capitolo del terrorismo. E poi ancora ricordò anni dopo che «i finanziamenti illegali ai partiti e alle attività politiche non sono stati un'invenzione degli anni ottanta».
Ricordiamo che l'Italia attraversava un periodo di grandi sconvolgimenti: l'inchiesta di Tangentopoli, gli attentati di matrice mafiosa, il trattato di Maastricht che prefigurava un futuro ancora da definire. Si viveva un clima di smarrimento con la fine dei vecchi partiti della Costituzione del 1948 che, sotto le mazzate del pool di "Mani pulite", scardinò ogni riferimento politico di milioni di elettori.
Covava un sentimento di rancore e frustrazione nei confronti di ogni riferimento politico, clima nel quale il giustizialismo a ogni costo prosperava sempre più violento.
Nel febbraio 1993 a Enzo Carra, capo ufficio stampa della Dc, fu imposto di sfilare con le manette ai polsi (anzi con gli schiavettoni) al solo uso e consumo di fotografi e giornalisti: una passerella infame accolta con una sostanziale indifferenza.
Era il periodo dei suicidi eccellenti (Cagliari, Gardini, Moroni e altri): dal 1992 al 1998 i suicidi "giudiziari" sarebbero stati ben 45, 38 dei quali tra il 1992 e il 1994.
Il clima dell'epoca sembrava giustificare ogni eccesso ("La Repubblica" del 5 agosto 1992 titolava "Li vogliono tutti in manette", dopo un sondaggio realizzato per "Famiglia Cristiana").
Michele Santoro, nella sua trasmissione "Samarcanda", condotta dopo l'uccisione del democristiano Salvo Lima nel marzo 1993 a Mondello, si rivolse direttamente alla piazza «Siete contenti che l'hanno ammazzato?». La trasmissione fu chiusa per quindici giorni. E poi ricominciò.
Il 4 giugno 1993 il capo del pool di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affermò: «Non incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato».
Era anche il periodo della vergognosa campagna di delegittimazione contro Giovanni Falcone, accusato di tenere nascoste le prove dei delitti di mafia e di essersi praticamente venduto al potere, in particolare proprio ai socialisti. Dopo la sua morte, nel maggio 1992, i suoi maggiori aguzzini si sono trasformati nei più accesi paladini con un rivoltante voltafaccia che ancora continua.
L'obiettivo giudiziario di quegli anni era ovviamente lui, Bettino Craxi, anche se nessuno pensava potesse essere coinvolto direttamente negli illeciti.
Le elezioni politiche del 1992 segnarono il crollo storico della Dc e una minima perdita per il Psi. La Lega Lombarda superò i 3 milioni di voti e anche "La Rete" furbescamente fondata da Leoluca Orlando ottenne un buon successo con 15 parlamentari.
Il clima contro la ex maggioranza del Pentapartito si fece acceso. Oscar Luigi Scalfaro fu eletto Presidente della Repubblica (imperdonabile errore di Craxi e Pannella) e il pool di Milano arruolò due nuovi pm: Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo.
In questo clima surreale, il 29 aprile 1993 il Parlamento deve pronunciarsi sulle accuse a Bettino Craxi.
Sono sei punti in discussione: si va dalla corruzione "in luogo non accertato" alla violazione del finanziamento pubblico a Milano e Roma; dalla ricettazione a Milano a connesse ipotesi di violazione del finanziamento pubblico a Roma e infine alla perquisizione di Craxi e acquisizione di registri, estratti conto, bilanci.
Le votazioni si concludono con quattro no alle autorizzazioni e due sì.
Si scatenò un incredibile putiferio in Aula: un deputato leghista alza le braccia e fa il segno delle manette, Leoluca Orlando della Rete urla «Bravi, bravi» e applaude in segno di scherno, altri gridano «Ladri, ladri», «Elezioni». Si arriva in qualche caso allo scontro fisico mentre volano manifestini già preparati in anticipo: strepiti, ingiurie, pugni levati, sputi.
In pratica tutte le accuse milanesi sono saltate in aria. Mario Segni, pallido come sempre, dice: «Incredibile... la democrazia è in pericolo». Per Sergio Mattarella il voto alla Camera «è un grave errore».
Ci si chiede: perché è un errore? Il voto parlamentare a scrutinio segreto è un voto democratico, libera espressione di parlamentari liberamente eletti. Dov'è il vulnus? O, come sempre, se il risultato è differente dalle proprie aspettative significa che la democrazia è in pericolo? È una prassi costante, un riflesso condizionato che non è mai scomparso.
Insomma, occorreva a ogni costo una vittima sacrificale e quell'uomo corpulento, a volte prepotente, che aveva osato sfidare i comunisti sulla strada del vero socialismo riformista - ma che comunque era uno dei quattro o cinque uomini politici che hanno dato un'impronta alla politica del secondo Dopoguerra - era l'incarnazione perfetta del capro espiatorio.
Si scatena un putiferio: tre ministri del neogoverno Ciampi si dimettono. Sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici è un florilegio di anatemi.
Si scomoda anche il cardinale Carlo Maria Martini, che, davanti a un gruppo di fedeli (e di giornalisti) afferma: «Ci fa paura vedere come si comporta la classe politica e lo stesso Parlamento con azioni a sorpresa, troppo difformi dalle attese della gente». Lo Spirito Santo doveva essere impegnato altrove.
A Milano il candidato sindaco missino Riccardo Di Corato si ammanettò innanzi al portone dello studio di Craxi con un cartello che recitava «Craxi in libertà, manette all'onestà».
Da notare che il TG1 delle 20,30 di Luca Giurato quel giorno fece finta di niente e nemmeno riferì delle mancate autorizzazioni a procedere. È la democrazia!
Gli editoriali di fuoco dei giornali si scatenarono. Su "L'Indipendente" diretto da Vittorio Feltri si definiva Craxi un "capobanda mafioso"; "La Repubblica" titolava "Vergogna, assolto Craxi".
La sera del 30 aprile, in Piazza Navona a Roma, si tenne un comizio al quale partecipano Giuseppe Ayala, ex magistrato parlamentare repubblicano, Francesco Rutelli, parlamentare dei Verdi e Achille Occhetto, segretario Pds. Il clima era naturalmente surriscaldato.
Gruppi di partecipanti, sempre più numerosi, lasciarono la piazza e si diressero verso l'Hotel Raphael, lì vicino, dove viveva Craxi. Gli slogan erano ricorrenti: "in galera", "suicidio", "Craxi a San Vittore".
Davanti all'hotel c'erano pochissimi agenti e altri pochi se ne aggiunsero. In caso di degenerazione non potevano farci nulla e d'altronde era troppo tardi per poter creare un cordone di sicurezza.
Craxi scese nella hall perché doveva andare a registrare un'intervista con Giuliano Ferrara. Diede un calcio all'ascensore e si scusò con alcuni turisti dell'hotel per la confusione. Gli consigliarono di uscire dalla porta sul retro per evitare le proteste e andarsene di nascosto. Non rispose.
Si avvicinò all'ingresso dell'hotel mentre gli accompagnatori e alcuni agenti si aprirono per fargli ala e aprì la porta con un piede.
Il resto è nella cronaca del più miserabile esempio di squadrismo politico della nostra storia repubblicana: di quell'esemplare episodio di democrazia restano solo le immagini riprese dalla telecamera di uno che era lì per caso.
Quando Craxi uscì, un dirigente del Commissariato di zona cercò di calmare la folla e viene preso a sputi.
Craxi si avvicinò alla sua auto e fu una pioggia di monete e monetine e anche sanpietrini, mattoni e un ombrello. Craxi li definì "tiratori di rubli", anche se c'erano tutti, comunisti e missini.
Sui giornali dell'indomani nessuna notizia su quanto era avvenuto o qualche riga distratta ben nascosta all'interno.
Quel 30 aprile 1993 fu il giorno in cui Craxi affrontò il suo destino con una calma fredda e apparente, ma cominciò a morire.
La vicenda umana e politica di Craxi segnò la fine della politica in Italia e marcò indelebilmente il suo arretrare di fronte alle forze del potere giudiziario, non certo democratiche.
E quanto avvenuto con Craxi si è ripetuto puntualmente: prima con Berlusconi e ora con Salvini, casualmente schierati tutti in un certo versante politico. E qui basterebbe leggere il libro di Sallusti-Palamara per riconoscere certe strategie tanto care alla sinistra italiana, togata o meno.
Filippo Facci aveva allora 26 anni, giovane cronista de "L'Avanti"; fu capace come pochi di criticare l'operazione Mani Pulite. Fu legato da una strana e sincera amicizia con Craxi che non rinnegò mai (a differenza di tanti altri). Il volume, infatti, intreccia alla cronaca di quegli anni i ricordi della loro amicizia. Amicizia che gli costò inimicizie, rancori, boicottaggi, preclusioni varie nella sua attività.
Ha scritto un libro che si legge con dolore, se si ha a cuore un certo concetto della politica e della democrazia, abbandonando ogni forma di cinico disincanto.
Politici, magistrati e soprattutto giornalisti ne escono descritti nella loro miseria.
È un invito a fare i conti con la propria coscienza.
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