EXCALIBUR 130 - luglio 2021
in questo numero

Sardi a Salò: Antonio Gaviano

L'avventura straordinaria del soldato Antonio Gaviano

di Ernesto Curreli
il soldato <b>Antonio Gaviano</b>
il suo foglio matricolare
Sopra: il soldato Antonio Gaviano e il suo foglio matricolare
Sotto: soldati italiani in zona di occupazione nell'agosto 1942 e
l'esecuzione di un partigiano greco da parte di Italiani
soldati italiani in zona di occupazione nell'agosto 1942
l'esecuzione di un partigiano greco da parte di Italiani
Molti soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale hanno vissuto avventure belliche straordinarie.
Tra questi ci fu Antonio Gaviano (Seui (NU) 1921 - Cagliari 2014). Chiamato alle armi, dopo un primo addestramento ad Alba fu assegnato alla Divisione di fanteria "Forlì". La divisione era stata strutturata secondo il nuovo modello: ai due Reggimenti di fanteria (43º e 44º) si era aggiunto il 343º fanteria, reparti di CC.NN., un Reggimento di artiglieria campale, un Battaglione Mortai e reparti di Specialità e Servizi (Controcarri, Genio, Trasmissioni, Fotoelettricisti, Sanità, Sussistenza, ecc.).
Dopo la breve campagna sul fronte alpino francese, la divisione dalla fine del gennaio 1941 fu trasferita sul fronte greco-albanese. Io intervistai il Sig. Gaviano nel 2013, aveva 92 anni, era lucidissimo e in ottima salute. Cominciai una domenica mattina a fargli qualche domanda, sembrava avesse una storia interessante da raccontare. Col tempo mi raccontò le sue vicissitudini di guerra. Tutto quello che adesso scrivo proviene dagli appunti che presi all'epoca. I nomi delle località e le date degli avvenimenti sono fedelmente riportati come lui me li raccontò. Aveva una buona memoria e non mostrava esitazioni nel citare luoghi e fatti d'arme vissuti. Tutto ciò che è virgolettato proviene dal suo racconto.
Dunque, Gaviano apparteneva al 43º reggimento. «Alla fine di gennaio 1941 fummo imbarcati sui traghetti che ci sbarcarono nel sud dell'Albania, dove il fronte italiano sembrava sul punto di cedere». I soldati parteciparono a furibondi combattimenti sul fronte: «Non è vero che i Greci avevano poche armi, anzi noi avevamo l'impressione che fossero meglio armati e meglio guidati rispetto a noi».
Entrò in linea anche il 3º Reggimento Granatieri di Sardegna, in forza organica alla Forlì, che si batté eroicamente tanto da conquistare la M.O.V.M. che oggi fregia la sua bandiera di guerra nel Museo nazionale delle Bandiere.
Una volta che il fronte sembrava stabilizzato, all'improvviso «nella notte del 13 aprile 1941, giorno di Pasqua, i Greci lasciarono le loro posizioni perché i Tedeschi li stavano avvolgendo alle spalle». La notte prima, gli ufficiali li avevano avvertiti che l'artiglieria divisionale avrebbe aperto un «piccolo fuoco di artiglieria contro il nemico, invece era lo scatenamento di un inferno di fuoco».
La Forlì, penetrata il territorio greco fino alla Tessaglia, fu schierata come forza di occupazione dapprima in Tessaglia tra Larissa, Volos e Lamia, poi più a sud tra Lamia, Tebe, l'Attica e Atene.
Ed è proprio a Lamia che avvenne uno dei fatti che rimasero impressi nella sua memoria. L'unità, impegnata a presidio di un vasto territorio che arrivava ad Atene, era stata ancora rinforzata con due sezioni di CC.RR., due battaglioni di CC.NN., uno di Bersaglieri. Però anche i Greci si erano riorganizzati in unità guerrigliere, tanto da poter attaccare le posizioni italiane di Lamia, provocando 37 caduti tra gli Italiani e alcuni tra i Tedeschi.
Quando Gaviano e il suo reparto furono trasferiti d'urgenza su automezzi da Atene a Lamia, riuscirono a catturare una grossa compagnia di guerriglieri: «Erano armati con mitragliatrici da 20 mm, lo scoprimmo con sorpresa».
Ne stavano scortando un centinaio verso un campo di prigionia, quando intervenne un reparto della Vehrmacht: «Presero i prigionieri e, davanti alle nostre proteste, ci minacciarono con le armi, li volevano giudicare loro». I soldati italiani scoprirono con orrore quale fosse quel giudizio: «Li fecero schierare per fucilarli sul posto e, quando si frapposero i preti ortodossi che erano con loro come cappellani militari, senza tante cerimonie passarono per le armi anche loro».
L'occupazione continuò con relativa tranquillità e diminuirono gli attacchi dei Greci. Piuttosto, gli Italiani dovettero assistere la popolazione greca con viveri e medicinali, tanta era la povertà che si era diffusa a causa della guerra in quelle regioni dell'interno. Gli ufficiali, anche in Grecia, diedero prova della loro totale impreparazione e della loro avidità, facendo registrare episodi di corruzione che portarono a una inchiesta dello Stato Maggiore, subito messa a tacere forse per ragioni politiche.
Proprio l'8 settembre 1943 Gaviano era ad Atene con una autocolonna che stava effettuando un rastrellamento antipartigiano in alcuni quartieri. I soldati della Forlì appresero dell'armistizio dalla radio durante la notte. L'indomani il Gen. Vecchiarelli, comandante superiore delle forze italiane in Grecia, ordinò di cedere le armi ai Tedeschi. Su dieci divisioni, solo due rifiutarono la resa. Si trattava della Acqui, che pagò a Cefalonia un alto tributo di sangue, e della Pinerolo, attestata in Tessaglia, che già si era macchiata di terribili rappresaglie contro le unità partigiane nel villaggio di Domenikon, dove i suoi uomini fucilarono tutta la popolazione maschile, circa 150 persone, per vendicare l'uccisione di decine di soldati italiani.
La divisione non obbedì a Vecchiarelli e anzi sostenne una cruenta battaglia per impedire ai Tedeschi la presa dell'aeroporto di Larissa. Poi proseguì per mesi la guerra con le unità comuniste dell'Elas, per essere infine disarmata dall'Esercito di liberazione greco. Nei campi di prigionia perirono alcune migliaia di questi sfortunati soldati.
Gaviano in fondo fu più fortunato. Fu internato nel campo vicino ad Aschaffenburg, nella Baviera, e lì, con altre centinaia di soldati di diverse unità, obbedì al richiamo del Duce lanciato dalla radio di Monaco.
Mi disse che nel messaggio radio lanciato ai prigionieri italiani, Mussolini aveva dichiarato che «la Germania ha ancora molte frecce nella sua fantasia e infine vincerà la guerra». Così accettò l'inquadramento in una unità tedesca di Granatieri della quale non ricordava il numero o, forse, non voleva dirmelo.
Fu trasferito a Gablonz, nel protettorato di Boemia e Moravia, insieme a circa duecento Italiani che avevano aderito. Dopo un breve addestramento, già nel 1944 si trovava nella Prussia Orientale. Con lui c'erano molti Italiani e diversi soldati sardi. Non avevano i gladi sul bavero né divise italiane, solo divise tedesche complete. Non fornirono i caratteristici elmetti tedeschi, ma solo il fucile Mauser, bombe a mano e la bustina per copricapo. Nella città c'erano molti civili italiani, francesi e greci che lavoravano nell'industria bellica tedesca.
Nella primavera del 1945 si scatenò l'inferno. Lui era ormai un guastatore, specializzato nella posa di mine anticarro e di bombe a strappo, collegate con fili metallici lungo i campi dove i Tedeschi presumevano che sarebbe avanzata l'offensiva sovietica. «In Prussia Orientale c'erano nella nostra zona soltanto divisioni di panzer con giovanissimi equipaggi».
Quando i Russi ruppero la cortina difensiva del fronte orientale, irruppero all'improvviso in Prussia. I carristi tedeschi cercarono di fermare l'avanzata sovietica in ogni modo: «I carri correvano da una parte all'altra della Prussia, si vedeva che quei ragazzi erano sfiniti». Anche intorno a Gablonz si scatenò una breve battaglia: «Noi vedevamo i carri russi saltare sulle bombe o colpiti dai carri tedeschi, ma erano tantissimi e avanzavano da tutte le parti, sembrava che niente li potesse fermare».
Il comando tedesco ordinò una ritirata per salvare le unità motorizzate ancora combattenti, lasciando sul posto i soldati stranieri. Per gli Italiani fu facile indossare abiti civili requisiti, non fu lo stesso per le centinaia di soldati ucraini che si erano uniti ai Tedeschi. Intorno alla città ce n'erano circa 300, accompagnati anche loro da sacerdoti ortodossi.
Gaviano assistette a distanza per la seconda volta a una strage: «I Russi presero i soldati ucraini e li schierarono su un ampio campo per liquidarli. Non si curarono del fatto che tra loro c'erano i cappellani ortodossi. Li costrinsero a scavarsi la fossa, poi furono tutti uccisi con un colpo di pistola alla nuca».
Gli Italiani e gli altri stranieri in borghese furono trattati bene, se bene si può dire: «Ci davano una sola grande focaccia di pane nero con marmellata per ogni dieci persone due volte al giorno».
Finita la guerra, li lasciarono liberi di tornare in patria. Gaviano e gli altri Italiani impiegarono «tre mesi e dieci giorni» per raggiungere il confine italiano. Il Danubio, mi disse, «fu attraversato due volte, prima passando dall'Ungheria e poi a Vienna, utilizzando zattere di tronchi legati con delle funi», dove trovarono gli Americani.
Al Brennero le guardie italiane tentarono di levare ai reduci tutti gli equipaggiamenti che avevano, ma non effettuarono perquisizioni personali. Un capitano degli Alpini, anche lui proveniente da chissà dove, che indossava le mostrine della Rsi, li avvertì subito: «Non consegnate niente, né ai carabinieri né ai finanzieri e state attenti alle imboscate dei partigiani».
Pescantina, centro di raccolta dei reduci, brulicava di Italiani che rientravano e cantavano «Mamma son tanto felice perché ritorno da te».
E a questo punto nel viso di Gaviano, che non aveva mai mostrato turbamento nel raccontare le sue avventure, scese una lacrima.
Mi disse che portava addosso due pistole, una tedesca e una italiana. Li lasciarono andare e a ognuno diedero dei vestiti: pantaloni, giacca, camicia, mutande e maglietta.
Con 500 lire per il viaggio. Imbarcato sul traghetto per la Sardegna, buttò in mare le pistole. A Seui lo attendevano solo le sorelle, la mamma non c'era più.
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